La precarietà non è un destino, ma il frutto di processi economici e di scelte politiche. E non bisogna pensare che l’uscita dall’attuale crisi comporti inevitabilmente un’ulteriore compressione dei diritti e delle prospettive della parte più debole e più giovane della società. Bisogna far lavorare la testa, rifiutare le analisi preconfezionate, studiare molto e proporre tante alternative. Ecco perché è importante l’appuntamento del 19 e 20 novembre per la prima assemblea nazionale della rete anti-precarietà “Il nostro tempo è adesso”: qui l’appello “fondativo” della scorsa primavera e qui invece la convocazione dell’assemblea. La cosa più importante che uscirà da questo appuntamento è il “decalogo” contro la precarietà: dieci proposte di politiche concrete per eliminare l’instabilità, che non è solo lavorativa ma che abbraccia più aspetti dell’esistenza.
1. Le dieci proposte disegnano una trasformazione radicale della società italiana. Radicale ma assolutamente necessaria: contratti stabili per lavori stabili, mai più lavoro gratuito, continuità di reddito, reddito minimo d’inserimento, maternità e paternità come diritti universali, diritto di voto, assemblea e sciopero, il diritto di ammalarsi e quello ad avere una pensione in vecchiaia, la formazione continua e la casa. Chi sta già storcendo il naso, dicendo “un bel libro dei sogni, ma chi paga?” aspetti il prossimo punto. Intanto rifletta su un aspetto non secondario: la nostra costituzione è considerata come una delle più avanzate del mondo perché stabilisce l’inscindibilità dei diritti sociali dai diritti civili e politici. Non si è liberi di esprimersi e di contare in una società democratica se non si è sicuri di morire di fame o di malattia. La precarietà non è solo una sciagura economica ma è un problema per la democrazia: non solo perché espone i precari e le precarie a numerosi ricatti, anche da parte di politici corrotti e clientelari, ma perché danneggia la libertà dei lavoratori in alcuni settori chiave della democrazia. Davvero si può pensare che la libertà di stampa non c’entri nulla con il precariato tra i giornalisti? Una giornalista o un giornalista che non ha nessun potere contrattuale e che viene pagata/o pochissimo e solo per ogni singolo pezzo può permettersi di esercitare il proprio senso critico, fare tutte le verifiche e alla fine dire “no, questa cosa non la scrivo”? In fondo, se ci si pensa solo un attimo, quel decalogo chiede solo di estendere i diritti sociali previsti dalla nostra costituzione ad un’intera generazione che oggi ne è priva.
2. Si dirà: tutto bello, ma non ce lo possiamo permettere. Prima si pensa alla crescita e poi ci sarà la redistribuzione. Era uno degli assunti della Terza Via di Tony Blair e di tanti anche nel centrosinistra italiano: la lotta alla disuguaglianza è una conseguenza della crescita e si può fare solo fintantoché, lasciando mano libera al mercato, cresce il prodotto interno lordo. La crisi del 2008, però, ha dimostrato la fallacia di questo ragionamento: la disuguaglianza non è solo una conseguenza della crisi, ne è anche una causa. E per tanti motivi. Il primo è che l’enorme quantità di denaro nelle mani di pochissimi non incentiva la domanda e i consumi ma costituisce solo una massa di risparmi che vengono investiti in speculazione finanziaria. Il secondo è che la stragrande maggioranza della popolazione ha continuato a consumare solo fin quando c’è stato un accesso facile, troppo facile, al credito. Finito quello, è crollata la domanda. Per chi legge l’inglese, questo breve articolo di Nouriel Roubini, l’economista che previde la crisi, spiega il rapporto tra disuguaglianze, crisi economica e pericoli per la democrazia.
3. Ci limitiamo a tradurne un pezzo, che tuttavia pone alcune domande significative: “Alcune delle lezioni sulla necessità di regolare prudentemente il sistema finanziario sono andate perse nell’era Reagan-Thatcher, quando l’appetito per una massiccia deregolamentazione fu creato in parte anche dai fallimenti del welfare state europeo. (..) Ma il modello laissez-faire anglosassone è anch’esso fallito miseramente. Per stabilizzare le economie di mercato è necessario un ritorno al giusto equilibrio tra i mercati e la fornitura di beni pubblici.(..) Qualsiasi modello economico che non risolva appropriatamente la disuguaglianza si troverà di fronte ad una crisi di legittimità. A meno che i rispetti ruoli dello stato e del mercato non verranno ribilanciati, le proteste del 2011 diventeranno più serie, con l’instabilità sociale e politica che, alla fine, danneggerà anche la crescita di lungo periodo e il benessere.”
4. Infine, visto che di crisi fiscale si sta parlando, vale la pena ricordare come lo spostamento del reddito dal lavoro al capitale, di cui parla Roubini all’inizio del suo articolo, pone dei problemi anche per le entrate dello stato perché i redditi da capitale sono più difficili da individuare e localizzare e perché sono più volatili in un mondo così globalizzato. Inoltre, la precarizzazione del mondo del lavoro in Italia si è associata anche ad un doppio regime contributivo: più alto per i contratti stabili e più basso (all’inizio, molto più basso) per i contratti precari. Chi guardi ai conti di alcune gestioni previdenziali, come per esempio quella dei giornalisti, noterà che sono entrate in crisi proprio nel momento in cui la generazione del baby-boom andava in pensione, i grandi giornali realizzavano i pre-pensionamenti di massa (sostituendo a volte lavoratori anziani ben pagati con giovani pagati di meno) e dall’altro lato i contributi, bassissimi o nulli, di giornalisti precari e malpagati non riuscivano a sostenere questa spesa.
Davvero la precarietà è inevitabile? E davvero non c’entra nulla con la crescita e lo sviluppo? Vale la pena continuare a porsi queste domande, e cercare di elaborare delle proposte come quelle del “decalogo”.
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