I sedicenti demiurghi della modernità, i cultori delle taumaturgiche virtù del mercato, gli ineffabili interpreti del pensiero unico liberista, gli spregiudicatissimi protagonisti della superfetazione finanziaria che ammorba l’intero pianeta stanno pilotando verso il disastro l’economia mondiale, con la stessa sciagurata incoscienza con cui il transatlantico Concordia è stato affondato nelle acque del Giglio.
L’era politica nata sotto la stella del reaganismo e del tatcherismo, la totale deregolamentazione dei rapporti economici e di quelli sociali e la spaventosa polarizzazione della ricchezza che ne è sortita hanno letteralmente annichilito i redditi da lavoro dipendente, hanno devastato – sino a ridurle all’irrilevanza – le organizzazioni del movimento operaio e hanno conculcato i diritti dei prestatori d’opera. Ma, alla lunga, l’impressionante diseguaglianza di condizioni sociali si è trasformata, per i detentori del capitale, in un colossale boomerang, perché l’impoverimento di massa, la proletarizzazione di estesi strati di ceto medio hanno inesorabilmente compromesso gli sbocchi delle merci sui mercati. Sicché l’ennesima crisi di sovraproduzione ha generato un tragico impasse nel rapporto produzione-consumo-produzione, che neppure il tradizionale ricorso alla guerra e alla proliferazione militare come volano della domanda ha potuto sbloccare.
Il credito “ad libitum” ai consumi, che è stato l’escogitazione fraudolenta con cui gli Stati Uniti e l’intero sistema bancario hanno creduto di rimettere in moto il meccanismo inceppato senza comprometterne i fondamenti, ha poi generato una colossale bolla speculativa ed un default che le banche hanno trasferito sugli stati e gli stati, a cascata, sui cittadini, distruggendo forze produttive e mordendo sull’economia reale.
Lo spettacolo surreale che ci viene quotidianamente somministrato ha per attori protagonisti proprio le grandi istituzioni finanziarie, dal Fmi alla Bce, divenuti i veri dominatori di una scena politica dalla quale sono scomparsi, o ridotti a pallide controfigure, i rappresentanti ormai solo formali della sovranità popolare.
La ricetta salvifica – di rigida osservanza monetarista – è quella dei tagli: al welfare, ai salari, alle pensioni, all’istruzione, nell’intento di saldare, con il sangue della povera gente, un debito che, al contrario, la caduta dei consumi alimenta, lungo una spirale recessiva di cui non si vede il punto d’arrivo: la Grecia, con la sua debolezza strutturale, non rappresenta dunque un’eccezione, ma riflette la china su cui, con modi e ritmi diversi, stanno scivolando tutti i paesi europei.
In realtà, i sedicenti medici che si affannano al capezzale della crisi, le istituzioni finanziarie che ora dettano, sin nei particolari, l’agenda dei governi, brancolano nel buio e sono ormai del tutto incapaci di una credibile previsione del futuro. Si osservi la rappresentazione grottesca che gli economisti, i commentatori politici legati ai santuari della finanza danno di sé. Si osservi la quotidiana trepidazione con cui i cittadini, trasformati in adepti e catecumeni di una pratica superstiziosa, vengono addomesticati a vagliare, di ora in ora, il differenziale (lo “spread”) fra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi. Gli interpreti, anzi, i sacerdoti di questo neonato culto, somigliano agli antichi aruspici che scrutavano il volo degli uccelli, o rovistavano le viscere degli animali, per dare corpo alle loro cialtronesche divinazioni. Nel loro agire, tuttavia, costoro seguono, autisticamente, una sola stella polare, che consiste nello scaricare l’intero fardello sulle spalle di chi abita i piani bassi dell’edificio sociale. La circostanza, comprovata dai dati, che persino in questa fase di crisi acuta e di impoverimento di massa, vi sia chi si arricchisce a dismisura, rivela che il guasto sta nel manico e che le misure sin qui adottate per venire a capo del tracollo non sono affatto un prodotto neutro della scienza economica ma, semplicemente, una precisa opzione politica o – se l’espressione non inquieta – una scelta di classe.
In questo quadro desolante, la sola circostanza incoraggiante viene dalla consapevolezza che si fa strada, anche e forse proprio fra le nuove generazioni, la persuasione che la miseria materiale e morale nella quale esse sono state precipitate ha delle precise responsabilità. Quando gli “Indignados” spagnoli gridano nelle piazze “El problema es el sistema”, e quando negli Stati Uniti dilaga una protesta senza precedenti, che assedia Wall Street e che individua in quel simbolo la causa del dissesto planetario e della espropriazione di futuro, significa che – per la prima volta in modo così radicale – viene messa in discussione la dittatura del capitale finanziario. Più precisamente, comincia a sedimentare la convinzione che alla radice dell’insostenibile stato di cose presente vi è il modo di produzione capitalistico ed i rapporti sociali che esso ha generato. E che ogni tentativo di “restaurare” quel sistema riproducendone le dinamiche si traduce in un aumento delle diseguaglianze e in una grave compromissione della democrazia, prefigurando possibili esiti politici non lontani da quelli che negli anni Trenta hanno portato al potere – nel cuore dell’Europa – la più feroce e delirante dittatura totalitaria.
Se poi guardiamo allo scenario italiano, tutto ci appare vieppiù chiaro.
Il volto per bene e rassicurante di Mario Monti ha del tutto anestetizzato la già impalpabile opposizione parlamentare che era riuscita a mascherare la propria sconfortante afasia strategica e programmatica dietro l’esclusivo e totalizzante obiettivo di disarcionare il “caudillo” di Arcore. Una volta raggiunto lo scopo – più per l’autocombustione di quell’impresentabile coacervo di maleodoranti interessi che per averne sconfitto il progetto politico – l’opposizione, e specialmente il Pd, si è convintamente affidata all’uomo della “Trilateral”, fedele esecutore testamentario della ricetta vergata dalla Bce, in partnership con un’Unione europea totalmente succube dei poteri forti e fautrice della più irriducibile ideologia monetarista.
Il governo Monti esprime coerentemente questa linea, che nel volgere di poche settimane si è tradotta in un poderoso salasso dei redditi da lavoro, sebbene nulla si sia fatto per favorire la contribuzione dei percettori di alti redditi e per colpire l’evasione: qui siamo fermi ai proclami, più funzionali alla propaganda a buon mercato che utili a ristorare le esauste casse dello stato. Così, mentre la Guardia di finanza scova, nel 2011, 7.500 evasori totali, per una somma sottratta al fisco pari a 21 miliardi, e mentre si scopre che i salari italiani, i più modesti d’Europa, crescono della metà rispetto all’inflazione, il governo aumenta tutte le imposte indirette, taglia l’indicizzazione delle pensioni più basse, cancella con un colpo di spugna quelle di anzianità, e rivela l’intenzione di abolire la cassa integrazione straordinaria, provvedimento che priverebbe di qualsiasi protezione centinaia di migliaia di persone in procinto di perdere il lavoro in un’Italia in piena recessione. La privatizzazione dei servizi pubblici sociali, di quelli, naturalmente, che sono tali da assicurare una cospicua remunerazione agli investitori, è la sola politica industriale che l’eccelsa mente dei “professori” ha inteso partorire. Con buona pace della volontà popolare che con il recente referendum ha voluto sottrarre l’acqua ed altri irrinunciabili “beni comuni” alla logica mercantile e al profitto. Ma l’aspetto più perverso ed insieme rivelatore della natura del governo è quello che riguarda le politiche del lavoro.
Purtroppo, non molti – abbacinati da una martellante propaganda strillata da ogni pulpito mediatico – ricordano che verso la fine degli anni ’80 esistevano in Italia soltanto quattro tipologie contrattuali: l’apprendistato (che dopo pochi mesi si trasformava in lavoro qualificato e a tempo indeterminato), il contratto a termine (possibile solo in presenza di ben precise e limitate causali disciplinate dalla legge e dai contratti), i contratti di formazione e lavoro (solo per i destinatari di qualifiche medio-alte) e quelli interinali (proibiti nell’agricoltura e nell’edilizia). Ebbene, a distanza di vent’anni, i contratti atipici, contrassegnati da uno statuto di precarietà e a “termine”, sono divenuti 46: un vero “discount” delle braccia, un ginepraio di modalità della prestazione d’opera talmente ampio da avere superato ogni fantasia imprenditoriale, messo a punto non già per favorire l’occupazione, ma per trasformarne la qualità, aggirando diritti che parevano acquisiti per sempre alla civiltà del lavoro e che invece evaporavano sotto la spinta di quell’elegia della flessibilità che è diventata il mantra dei tempi moderni. Ecco, allora, al posto del giuslavorismo – nato per proteggere la parte più debole fra i contraenti il rapporto di lavoro – subentrare il diritto commerciale, buono per disciplinare la transazione che ha per oggetto le merci. Appunto: il mercato del lavoro come il mercato delle patate. Ma ciò non è bastato ancora. Restavano altri vincoli, altre “catene” da spezzare. In primo luogo il contratto di lavoro, il suo carattere unificante e indisponibile. Dopo un assedio durato un decennio, anche questa roccaforte è stata espugnata. Nel giugno dello scorso anno, un accordo interconfederale ha infatti sancito la derogabilità del contratto nazionale, nelle aziende o nei territori ove i sindacati maggiormente rappresentativi ne condividessero l’opportunità. Il cerchio lo ha poi chiuso il governo Berlusconi, inserendo nella manovra per fronteggiare la crisi una norma che consente di estendere la deroga anche alle leggi dello stato. Nè il sistema derogatorio si esaurisce qui, perché l’ex ministro Sacconi aveva già provveduto a rendere possibile un’ulteriore deroga, questa volta individuale, a qualsiasi contratto collettivo, purché la volontà del lavoratore (in realtà estorta come condizione per poter lavorare) sia certificata presso una Direzione provinciale del lavoro. Ora, è piuttosto evidente che l’uso discrezionale della forza lavoro ha toccato in Italia vertici difficilmente eguagliabili. In altre parole, il nostro è il mercato del lavoro più flessibile del mondo. Eppure, malgrado l’evidenza, è in corso l’ultima crociata, la spallata finale che Monti e il suo governo si sono intestati con l’obiettivo di eliminare l’architrave su cui poggia lo Statuto dei lavoratori: quell’articolo 18 che dispone la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore che abbia subito un licenziamento ingiusto, tale ritenuto da una sentenza della magistratura. Ovviamente, questo risultato, storicamente perseguito da Confindustria per estinguere qualsiasi diritto dei lavoratori, non ha nulla a che vedere con i problemi della crescita e – men che meno – con le strutturali criticità dell’impresa italiana; ne ha invece molto con la necessità di regalare ai padroni un potere illimitato, quasi che l’asimmetria fra le forze in campo non fosse già abissale. Affermare – a suffragio di questa tesi liberticida – che il mercato del lavoro nel nostro paese è “ingessato” equivale a pronunciare una colossale menzogna. Che suggerisce una conclusiva riflessione. Fra tutti i segni distintivi che precorrono l’eclissi della democrazia, ve ne sono due che più di ogni altro vanno tenuti in conto: l’abolizione dei diritti del lavoro, della libertà sindacale e la soppressione della libertà di stampa. Del primo ci siamo qui lungamente occupati. Quanto al secondo, merita solo ricordare che lo svuotamento del fondo per l’editoria che consentiva la sopravvivenza dei giornali di partito, di idee e cooperativi, sta distruggendo il pluralismo dell’informazione. Per cui in edicola troveremo in breve tempo soltanto la stampa di chi ha i quattrini, vale a dire dei giornali di cui sono proprietari grandi gruppi finanziari e imprenditoriali. E’ già successo una volta, in Italia, nel ventennio, con mezzi più ruvidi e con esiti estremi. Le cose oggi si fanno in un altro modo, ma la traiettoria ha un approdo inequivocabile.
Articolo pubblicato sul numero in uscita del “Calendario del Popolo”
Fonte: www.controlacrisi.org
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