«Ho sempre pensato che l’ Italia fosse un paese libero. Sbagliavo. Ho cercato lavoro e mi hanno sbattuto la porta in faccia perché porto il velo. E per il mio velo tre giorni fa sono stata picchiata, insultata, umiliata da un gruppo di ragazzi. Stavo solo bevendo un caffè». Neila Azzabi è una donna tunisina di 37 anni. Tre giorni fa in un bar che, per una beffa della sorte si chiama “Freedom”, nella piazza principale di Monterotondo, un paese alle porte di Roma, mentre beveva un caffè è stata aggredita da un gruppo di ragazzi perché indossava l’ hijab. «Ero seduta con mia sorella, quando un ragazzo, insieme ad altri otto amici, ha iniziato a gridare: “dovete tornare al vostro paese, tu sei una puttana musulmana e devi farti esplodere, che aspetti a farti saltare in aria? Kamikaze, devi ucciderti”. Poi mi ha dato uno schiaffo in faccia, mi ha tirato giù l’ hijab e mi ha detto: “questo in Italia non lo puoi portare”». Le lacrime le scendono a fiumi. Ripensare a quel momento la fa star male. Per lei indossare il velo, oltre a essere un’ occasione identitaria, è una scelta religiosa. «Sono molto credente – ripete più volte scossa, quasi a voler trovare nel mantra la forza di cancellare quell’ aggressione razziale – e a quel ragazzo voglio dire che quando vado a fare la spesa, pago come paga lui, che quando sorrido lo faccio come lui. Non è un velo che crea la diversità. Se mi chiedesse scusa lo perdonerei, ma la denuncia non la ritiro. Mi ha picchiata e insultata. Neanche mio padre né mio marito si sono mai permessi di darmi uno schiaffo. È giusto che paghi». Tutto è cominciato alle 18. Neila era stata con la sorella Nadia in un parco giochi, dove avevano portato il nipotino di un anno. Poi sono entrate in un bar a prendere un caffè e si sono sedute a un tavolino in via Buozzi, il corso principale di Monterotondo. Accanto a loro un gruppo di otto ragazzi e una ragazza. «Io badavo a mio figlio-a parlare oraè Nadia- sentivo insulti, frasi offensive ma ho pensato fosse un gioco tra di loro. Mia sorella che è da poco in Italia però a un certo punto mi ha detto che quei ragazzi guardavano proprio lei. E che quegli insulti pesanti erano rivolti a noi. “Musulmane schifose, fuori da qui” e altre cose pesantissime». Una coppia di italiani è intervenuta in difesa delle due donne tunisine, ma la reazione è stata pesantissima. Il leader del gruppo – un ventisettenne già identificato e denunciato dai carabinieri per lesioni, percosse e delitti contro i culti ammessi dallo Stato – si è alzato, gli altri hanno circondato le sorelle, e hanno iniziato a picchiarle, a tentare di strapparle il velo dalla testa, a prenderle a calci. «È stato umiliante, non si sono fermati neanche di fronte a mio nipote che piangeva disperato per la paura», ha proseguito Neila. «Io sono caduta per terra, loro mi hanno presa a calci». Poi sono fuggiti, prima dell’ arrivo dei carabinieri. «La gente intorno ha guardato la scena – interviene Nadia – nessuno ha mosso un dito per fermarli, fatta eccezione per la coppia che ha preso le nostre difese dall’ inizio. Sono vent’ anni che abito a Monterotondo, più di quelli che ho vissuto in Tunisia. Le persone che stavano lìa gustarsi la scena le ho salutate centinaia di volte per strada, al supermercato, in piazza. Ma nessuno ci ha aiutato». Mentre i carabinieri della compagnia Monterotondo lavorano per identificare e denunciare anche gli altri componenti del gruppo – l’ unico denunciato ha ammesso ogni responsabilità – dal mondo politico arrivano parole di condanna bipartisan per l’ episodio. «Ciascun uomo o donna che, proveniente da un altro Paese, nel rispetto delle nostre leggi, deve poter godere di tutti i diritti, essere accolto e messo al riparo da ogni forma di discriminazione – ha detto Mara Carfagna, deputato Pdl – Solidarietà, dunque, a Neilaea sua sorella». «Quello cheè accaduto a Monterotondo è gravissimo – ha dichiarato Livia Turco, responsabile immigrazione del Pd – Tuttavia questo episodio è anche segno della debolezza della politica italiana. Questi vergognosi episodi di intolleranza razzialee religiosa non possono essere accettati nel nostro Paese».
Fonte: www.repubblica.it
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