Gli cercarono l’anima a forza di botte. E’ accaduto a Ferrara sette anni fa. Mese più, mese meno. Due giorni fa la Cassazione ha stabilito che le due sentenze di condanna sono validissime, che fu un omicidio colposo, causato dall’eccesso colposo di quattro poliziotti che lo «scambiarono per un mostro capace solo di farsi spaccare la testa e di farsi spezzare addosso due manganelli». Mentre il procuratore generale smontava pezzo per pezzo i ricorsi dei legali degli imputati, sotto al Palazzaccio, quattro agenti della digos se la prendevano con uno striscione di carta arrotolato. C’era scritto, a occhio e croce: 21 giugno finalmente la verità per Federico. Forse l’avevano portato lì alcuni ragazzi che avevano risposto al tam tam girato in rete di venire a dare appoggio alla famiglia del ragazzo ucciso. Gli agenti in borghese dicevano che era una manifestazione non autorizzata, ma non era vero. I ragazzi che avrebbero voluto regalare quello striscione alla madre di Federico. Era vero. Alla madre non interessa il vostro striscione, replicava lo sbirro. Non è vero. Senza la solidarietà di ragazzi e ragazze, pezzi di movimento, ragazzi delle curve, la controinchiesta forse non avrebbe ottenuto questa condanna storica anche se, a leggere le motivazioni, sembrerebbe una condanna per un capo di imputazione strimizito. Eccesso colposo e non omicidio preterintenzionale, cioè cacciare l’anima a forza di botte. Mentre i colleghi in borghese dei quattro imputati prendevano i documenti di un paio di quei ragazzi, in aula i legali dei quattro sembravano stupiti per la condanna: che altro avrebbero potuto fare i nostri assistiti? Come dire esista un modo diverso di fare il poliziotto. C’era anche Ghedini, star del foro e di Montecitorio perché avvocato di fiducia dell’ex premier, l’uomo più ricco d’Italia. Il suo ricorso, secondo il pg era «illogico e incongriente». I suoi colleghi anche hanno insistito a dire che in fin dei conti era un drogato e che l’avrà ucciso la droga secondo una sindrome da delirio da eccitazione, una patologia inventata negli Usa solo per spiegare la morte di persone legate o costrette in caserme, ospedali, prigioni.
A chiamare l’avvocato di Berlusconi in questo processo è stata una associazione convinta che in Italia ci sia un problema di diritti umani negati per soldati e poliziotti come quelli che assaltarono la scuola Diaz a Genova nel 2001. Una specie di Amnesty International alla rovescia. La leader dell’associazione dice che in questa storia i genitori sono stati molto bravi. Non suona come un apprezzamento. Allora, oltre a pagare le spese legali per chi finisce sotto processo si organizzano corsi di guida e di tiro mica di educazione civica. Quella è roba da comunisti. Se ti negano un diritto niente di meglio di una pistola e di una macchina veloce. In realtà, se qualche diritto è negato ai cittadini con le stellette è la piena sindacalizzazione. Ma da un po’ i sindacati di polizia sembrano più preoccupati a sostenere le versioni ufficiali in casi come quelli della Diaz o di Aldrovandi che a rivendicare migliori condizioni di vita o di lavoro. Sembrano assillati dall’assistenza legale a colleghi impegnati nei massacri contro i no tav o contro operai egiziani licenziati vicino Cremona per poter assumere altri operai egiziani a prezzi dimezzati. Quando il giudice della quarta sezione ha pronunciato la sentenza, la presidentessa dell’associazione ha detto che per lei sono comunque innocenti. La rivedremo il 5 luglio alla sentenza di Cassazione per la notte cilena della Diaz.
Dopo tre gradi di giudizio, una ministra tecnica di polizia – la Cancellieri – usa ancora il condizionale – sembrerebbe che quei quattro abbiano combinato un guaio – forse per paura di tirarsi addosso gli strali di una galassia sindacale che sei anni fa coprì di insulti un ministro degli interni solo perché incontrando il padre di Aldrovandi e, dopo aver letto le carte, si augurò che si aprisse un reolare processo. Apriti cielo. Come quando un senatore del Prc, Gigi Malabarba, scoprì nel 2005 che due funzionari immortalati nelle violenze genovesi del 2001 avevano ricevuto il massimo dei voti per il servizio svolto quell’anno. Anche lì, apriti cielo contro il sovversivo senatore. Eppure quando nacquero i sindacati di polizia sembrava aprirsi una nuova stagione di democratizzazione. Anche il questore di Ferrara, all’epoca del delitto Aldrovandi, era considerato un democratico, uno che aveva fatto riunioni segrete per la sindacalizzazione.
Eppure solo Rifondazione comunista ha sempre sostenuto le battaglie per estendere la sindacalizzazione a ogni lavoratore con le stellette. Da sola ha chiesto che non si mandassero al macello nei teatri della guerra globale. E, sempre da sola, Rifondazione è stata l’unica organizzazione a commentare la sentenza, in sintonia con quanto ha detto anche Amnesty International. Paolo Ferrero ha detto che bisognerebbe trovare il modo per cui fatti del genere non accadano più, magari addestrando meglio gli agenti facendogli studiare la Costituzione. Magari introducendo un codice alfanumerico per quei servitori dello stato che operino in ordine pubblico. Magari introducendo il reato di tortura, ha insistito Amnesty, come chiede la comunità internazionale. Ma la comunità internazionale è l’alibi per i sacrifici umani mai della prevenzione dei sacrifici umani. Il resto della politica, quelli che bisogna aspettare l’ultimo grado di giustizia ha taciuto. E mentre la Cassazione rigettava i ricorsi, il senato compiva un altro furto di demcrazia tagliando il numero dei parlamentari come si tagliano i servizi pubblici.
Federico Aldrovandi aveva compiuto diciotto anni due mesi prima. Tornava a casa dopo una nottata con gli amici, sabato sera, che diamine. Incontrò due pattuglie, una dopo l’altra, di fronte al parchetto dell’ippodromo. Forse il suo passeggio notturno infastidì qualcuno intossicato dalla droga sicuritaria che circolava in abbondanza e non solo in Emilia. Forse le volanti erano già lì. Il mistero è evocato, ma non spiegato, anche nelle motivazioni delle sentenze. Quando gli cavarono l’anima a forza di botte, però, una donna vide tutto e non solo lei. Ma parlò lei sola nonostante fosse l’unica testimone ricattabile: straniera, madre single, in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno. Gli italiani preferirono mormorare, negare, ritrattare, spedire lettere anonime, girare la testa dall’altra parte. Tra quegli italiani anche i giornali, almeno finché il caso, grazie a Liberazione, bucò il velo spesso della nebbia ferrarese, mormorarono, insinuarono che chissà cosa volessero dimostrare i genitori. Patrizia, la mamma, fu trattata come uno straccio negli studi di Maurizio Costanzo. Patrizia e Lino, nello studio di Mirabella, si sentirono dire da Giovanardi che era solo un drogato quel figlio sformato dalle botte. Giovanardi è uno dei padri della legge omicida sulle droghe. Ancora Ferrero, dopo la sentenza: il proibizionismo è una barbarie che favorisce le mafie e i grandi spacciatori e concentra la repressione sui giovani.
Giovani erano Stefano Cucchi, Pino Uva, Carlo Giuliani, Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio, meno giovane era Ferrulli Michele, come Riccardo Rasman. La lista la fermo qui ma sembra interminabile. Alcuni di questi casi sono stati archiviati, altri sono al centro di un regolare processo. Questa sentenza servirà anche a loro. Ma serviranno sempre avvocati coraggiosi, giornali indipendenti, giudici dignitosi e familiari disposti a rivivere mille volte il loro strazio per inseguire verità e giustizia. E servirà l’intelligenza di tutti perché questo profumo di giustizia non costi vite umane.
Fonte: www.controlacrisi.org
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