intervista all’economista Emiliano Brancaccio
di Tonino Bucci
Dovevano essere un test fondamentale per l’euro. Invece le elezioni greche, neanche finito di contare i voti, sono passate in second’ordine. Come se niente fosse, dal giorno dopo sono ripartiti gli attacchi speculativi ai titoli di stato spagnoli. Persino il fatto che in Grecia abbia vinto un partito programmaticamente favorevole all’austerità, non ha prodotto alcun effetto tranquillizzante sui mercati finanziari. Da quanto accaduto bisogna trarre due conclusioni: la prima è che i fattori di crisi dell’euro non vengono dai movimenti di protesta o dalle sinistre radicali come Syriza. La crisi viene dall’instabilità sistemica e dalle contraddizioni interne allo stesso assetto monetario esistente. Secondo, il successo delle forze politiche che intendono perseguire programmi di austerità, non è affatto risolutivo di quella crisi, la quale anzi si riproduce nella zona euro secondo dinamiche proprie. Da qui allo scenario di un’eventuale deflagrazione – diciamo motu proprio – della moneta unica, il passo è breve. Detto in altri termini, il rischio che l’assetto monetario possa crollare su stesso nel giro di pochi mesi è un’ipotesi verosimile. Cosa succederebbe in uno scenario del genere? Quali forze e nell’interesse di chi governerebbero eventualmente l’uscita dall’euro? L’economista Emiliano Brancaccio, commentando l’esito del voto greco, ha lanciato sul proprio blog una tesi che spariglia le carte in tavola. «A pensarci bene – scrive l’economista – non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità». La mancata vittoria di Syriza, secondo Brancaccio, sarebbe dovuta all’assenza di una chiara opzione di uscita dall’euro. Cosa avrebbe fatto quel partito «se la Germania e le autorità europee avessero rifiutato di avviare una profonda rinegoziazione del debito»? Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, «ha evitato di ammettere che, a quel punto, sarebbe stato costretto ad affrontare la crisi abbandonando la moneta unica europea e mettendo in discussione, se necessario, anche il mercato unico dei capitali e delle merci. Numerosi elettori greci potrebbero aver percepito questa ambiguità».
La fragilità sistemica interna rende probabile il rischio di deflagrazione della moneta unica da qui a un paio di mesi. Dobbiamo cominciare a ragionare su questo scenario?
“Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali. Nel corso degli anni tale concorrenza è andata accentuandosi, e ha provocato una crescita degli squilibri nei rapporti commerciali tra paesi europei. La Germania, in particolare, ha accumulato surplus commerciali verso l’estero, vale a dire eccessi sistematici di esportazioni sulle importazioni. Di converso, l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione hanno accumulato deficit commerciali, cioè eccessi di importazioni sulle esportazioni. Questi squilibri hanno determinato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania e una corrispondente crescita dei debiti verso l’estero da parte dei paesi periferici dell’Unione. Debiti, è bene ricordarlo, sia pubblici che privati. Prima del 2008 la crescita economica mondiale trainata dalla finanza statunitense rendeva questi squilibri tollerabili. Ma da quando il regime di accumulazione globale trainato da Wall Street è entrato in crisi, le divaricazioni interne all’Unione monetaria europea si sono rivelate insostenibili. E le politiche restrittive che sono state finora adottate non hanno contribuito ad attenuare le divaricazioni. Anzi, in alcuni casi le hanno accentuate”.
Per quale motivo le politiche restrittive non correggono gli squilibri?
“Una ragione verte sugli effetti di quella che in gergo si definisce “deflazione da debiti”. I paesi periferici vengono chiamati ad abbattere la spesa pubblica e ad aumentare i carichi fiscali per ridurre l’indebitamento pubblico. Ma questa politica contribuisce ad aggravare la crisi economica e a deprimere ulteriormente i redditi. Di conseguenza, diventa più difficile rimborsare i debiti, non solo pubblici ma anche privati. Inoltre, la Commissione europea chiede ai paesi periferici di abbattere i salari per accrescere la competitività e ridurre così i loro deficit verso l’estero. Ma così facendo diminuisce ulteriormente il valore dei redditi e, di nuovo, diventa più difficile rimborsare i debiti. Per giunta, l’abbattimento dei salari non riesce nemmeno ad accrescere la competitività dei paesi periferici. Il motivo è semplice: anche il paese più forte, la Germania, insiste con una politica di contenimento dei salari in rapporto alla produttività. Tra il 2000 e il 2010 il potere d’acquisto dei salari in rapporto alla produttività è mediamente diminuito in Europa di circa mezzo punto percentuale, mentre in Germania è crollato di quasi tre punti. Negli ultimi mesi questo scarto si è solo un po’ ridotto, non si è affatto annullato. Ma se il paese più forte, che già accumula surplus e crediti verso l’estero, insiste con lo schiacciamento delle retribuzioni, i paesi deboli non potranno mai competere con esso attraverso la corsa al ribasso dei salari. Questo è un altro dei motivi per cui gli squilibri interni alla zona euro persistono nel tempo”.
Sembra un circolo vizioso…
“Si, anche perché alimenta le scommesse su una possibile esplosione della zona euro. Gli speculatori prevedono infatti che a un certo punto i paesi periferici faranno fronte alla crisi competitiva e debitoria attraverso un’uscita dall’euro e una conseguente svalutazione, sia della moneta che dei titoli. Questa previsione induce gli operatori sui mercati finanziari ad esigere tassi d’interesse più alti per cautelarsi contro il rischio di un crollo del valore dei titoli dei paesi periferici. Ma l’aumento del divario tra tassi d’interesse in crescita e redditi stagnanti o addirittura declinanti non fa che aggravare la posizione di questi paesi, rendendo così ancora più probabile un abbandono della moneta unica. Insomma, il meccanismo è internamente contraddittorio”.
In effetti molti parlano di un rischio imminente di deflagrazione della zona euro. E’ una previsione realistica?
“George Soros è considerato tra gli artefici dell’attacco speculativo dell’estate del 1992 che portò alla deflagrazione del sistema monetario europeo, l’antesignano dell’euro. Di recente Soros ha dichiarato che ci sono soltanto tre mesi di tempo per salvare la zona euro. Non è il solo a pensarla così. Anche il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, ha assecondato questa premonizione. Nessuno può dire con certezza se abbiano o meno ragione. E’ evidente tuttavia che a questo punto occorre contemplare tra le varie possibilità che proprio quest’estate si verifichi un’ondata di vendite sui mercati di tale portata da far esplodere l’Unione. Ad ogni modo, se anche l’attacco finale non dovesse realizzarsi nel breve arco di tempo preconizzato da Soros e dal Fmi, bisogna comunque ricordare che gli squilibri che caratterizzano la zona euro sono in crescita. Di questo passo, prima o poi, il tracollo della zona euro diventa pressoché inesorabile”.
E questo cosa significa, che potremmo trovarci nella condizione di dover stabilire una strategia di uscita dall’euro non tanto per decisione politica, ma per far fronte a processi oggettivi?
“Il materialismo storico ci insegna che non esiste un processo oggettivo in termini assoluti, come pure non esiste una decisione politica in termini assoluti. In linea di principio potrebbe anche accadere che i cittadini degli stati europei maggiormente in difficoltà accettino passivamente le conseguenze della permanenza ad ogni costo nella zona euro. Essi cioè potrebbero accettare passivamente che i propri paesi subiscano quello che Krugman ha definito un processo di “mezzogiornificazione”. Vale a dire, distruzione di interi tessuti produttivi, con moltissime imprese che falliscono o vengono acquisite da soggetti esteri, crescita ulteriore della disoccupazione e fenomeni migratori di massa. Questa “mezzogiornificazione” dei paesi periferici è già in atto, del resto. Essa rappresenta l’altra faccia della medaglia di quel meccanismo di egemonizzazione tedesca attraverso il quale si vorrebbe fare dell’Unione europea una sorta di “grande Germania”. Il problema è capire se tale processo possa andare avanti senza incontrare ostacoli. Considerate le sue contraddizioni interne, mi sembra improbabile che una dinamica di questo tipo possa verificarsi senza sommovimenti negli assetti politici. Le forze politiche che invocano l’uscita dall’euro già ci sono in molti paesi, e i consensi a loro favore crescono in misura significativa. A meno di profondi cambiamenti nella politica economica europea, c’è motivo di ritenere che a un certo punto le forze anti-euro prevarranno”.
Allora il problema che si pone è quello della scelta fra due strategie: una è quella che punta alla permanenza nella moneta unica, provando a cambiare le regole dell’assetto esistente; l’altra, invece, punta a uscirne e a riappropriarsi della sovranità tornando alla moneta nazionale. Quale delle due?
“Nel libro che ho scritto con Marco Passarella (L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore), abbiamo sostenuto che in realtà le due strategie sono logicamente interconnesse. Per risultare credibili, le rivendicazioni per una riforma dei Trattati europei dovrebbero essere accompagnate da un esplicito avvertimento alla Germania: senza cambiamenti sostanziali negli assetti dell’Unione, non soltanto la moneta unica è a rischio, ma può saltare anche il mercato unico europeo. I gruppi di interesse prevalenti in Germania sono infatti disposti a fare a meno dell’euro, ma tengono molto alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Se tale libera circolazione venisse esplicitamente messa in dubbio, le autorità tedesche potrebbero diventare più disponibili a una riforma sostanziale dei Trattati europei”.
Nel programma di Syriza c’era l’obiettivo di esigere la rinegoziazione delle condizioni dei prestiti europei contenute nel “memorandum” della Commissione, ma veniva esclusa l’ipotesi di un’uscita dall’euro. In un recente articolo hai dichiarato che in questa posizione sussiste un elemento di ambiguità. Perché?
“Si dice che Syriza, pur non avendo raggiunto la maggioranza, in fondo abbia vinto. Io rispetto questa tesi ma temo sia consolatoria. Naturalmente, sappiamo tutti che Syriza ha visto enormemente crescere i voti a suo favore. Ma questo risultato non costituisce un’eccezione. L’attuale fase politica europea è in pieno tumulto, nei paesi maggiormente in crisi l’instabilità dei flussi elettorali è ormai paragonabile a quella dei primi anni Trenta. In fondo, i dati sui flussi ci dicono che il successo di Syriza è in buona misura interpretabile come un’immagine speculare del tracollo del Pasok. E’ del tutto evidente che in una situazione del genere gli elettori spostano i loro voti alla disperata ricerca di soluzioni concrete alla crisi. Sotto questo aspetto il programma di Syriza conteneva una contraddizione che è saltata agli occhi di molti. Il partito ha infatti scelto di puntare alla rinegoziazione del memorandum in sede europea. Ma poiché era altamente probabile che quella ipotesi di rinegoziazione venisse respinta al mittente, cosa sarebbe accaduto subito dopo? Come si sarebbe comportata di conseguenza Syriza? Questa era la domanda più frequente che i giornalisti ponevano durante la campagna elettorale. Ma non c’era una risposta. L’ipotesi di un ripudio unilaterale del memorandum, e quindi del debito, avrebbe posto immediatamente un problema di ordine tecnico. Un paese come la Grecia, nella quale le importazioni sono state sistematicamente superiori alle esportazioni, dovrebbe comunque finanziarsi per coprire l’indebitamento verso l’estero. Ma un paese che ripudia il debito da un lato e poi chiede di rifinanziare il proprio disavanzo estero dall’altro, cade in una contraddizione che i creditori internazionali fanno pagar cara. L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo. In questo senso, avrei auspicato che si ragionasse in modo esplicito sul confronto tra le conseguenze di questa opzione e il perdurare dell’attuale situazione. Syriza ha invece scelto di escludere questa ipotesi. In questo modo la campagna elettorale si è sviluppata entro il perimetro dei tabù ideologici imposti dai soggetti dominanti. Questo fattore potrebbe aver pesato sull’esito delle elezioni più di quanto si sia disposti ad ammettere. Il timore, adesso, è che una dinamica del genere possa riprodursi anche in altri paesi, nelle tornate elettorali future. Le sinistre europee potrebbero cioè continuare pedissequamente a ribadire la loro fedeltà all’Unione monetaria europea, costi quel che costi. Così facendo, le sinistre si dichiarerebbero indisponibili a governare un eventuale tracollo della zona euro. Altri soggetti, distanti dagli interessi del lavoro, sarebbero allora chiamati a pilotare la deflagrazione. Questa sarebbe una prospettiva funesta, poiché i modi per gestire il possibile sfascio dell’euro sono vari, e ognuno tende a far prevalere gli interessi di certi gruppi sociali a scapito di altri”.
Di fronte al rischio di una deflagrazione della zona euro, quale sarebbe una strategia progressiva a vantaggio degli interessi popolari da contrapporre a una strategia regressiva a difesa degli interessi proprietari?
“La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili – e la zona euro è un sistema di questo tipo – vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta. Di fatto, è quello che è avvenuto in Italia dopo il tracollo dello sistema monetario europeo nel 1992. In quel periodo la svalutazione della lira si è realizzata in concomitanza di un blocco dei salari, conseguente al famigerato accordo sul costo del lavoro. In un caso del genere i lavoratori pagano interamente il prezzo della svalutazione della moneta. Il prezzo dei beni importati cresce e poiché i salari non possono recuperare l’aumento, si registra una caduta del potere d’acquisto. L’alternativa sarebbe quella di governare il processo di uscita facendo in modo che il peso non gravi interamente sui lavoratori subordinati. A questo scopo, si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori. Nella sua ottica liberoscambista pura, ad esempio, Monti ritiene che gli investimenti esteri siano benefici per tutti. Ma l’esperienza del nostro e di altri paesi ci dice che in realtà le acquisizioni estere possono anche fare molti danni al tessuto finanziario e produttivo di un paese”
A sinistra tuttavia sembra ancora prevalere un’avversione verso forme di limitazione della circolazione dei capitali e delle merci. Il protezionismo è considerato un pericolo, più che un’opportunità.
“I rapporti della Commissione europea, da un paio d’anni a questa parte, segnalano che dallo scoppio della crisi in tutto il mondo sono aumentati i controlli sui movimenti di capitali e di merci. Più di 400 nuove misure protezionistiche tra il 2008 e il 2011 realizzate in Argentina, Usa, Brasile, Cina, Russia ed altri paesi. Che ci piaccia o meno, la storia è in movimento. Le sinistre devono decidere in fretta se intendono provare a governare i processi già in corso, o restare alla finestra a guardare un disastro gestito da altri”.
Fonte: www.rifondazione.it
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