di Marco Zerbino
«Chi dice che vuole andare al governo e fare politiche di sinistra senza pronunciarsi sul fiscal compact, sta di fatto prendendo in giro il paese e i lavoratori». Non ricorre a giri di parole, Paolo Ferrero, quando si tratta di spiegare quella che, secondo lui, è la strada da imboccare per ricostruire una sinistra degna di questo nome in Italia.
«Si tratta, molto semplicemente, di mettere insieme quelli che sono contro le politiche di austerità e di chiedere poi agli italiani un voto per governare sulla base di un programma veramente alternativo, di un new deal per il paese». Secondo il segretario di Rifondazione Comunista, una lista o una coalizione «anti Monti» potrebbe aspirare ad una percentuale a due cifre.
E, quand’anche perdesse le elezioni, sarebbe in grado di incidere politicamente molto più di quanto non riuscirebbe a fare una sinistra che si candidi a governare insieme al Partito Democratico. «Non possiamo rivedere per la terza volta un film già visto, quello di alleanze che di fatto finiscono per essere una gabbia. Dobbiamo ammettere che il Pci è riuscito a cambiare l’Italia stando all’opposizione molto più di quanto non abbiamo fatto noi in passato stando al governo».
Un ruolo centrale, nella riaggregazione di un polo di sinistra e per il lavoro, potrebbe essere svolto secondo l’ex ministro della Solidarietà Sociale dalla Fiom, che si è guadagnata negli anni un’indubbia autorevolezza da spendere in questo senso. Ed è proprio alla festa della Fiom di Torino, a margine della presentazione del suo ultimo libro «Pigs! La crisi spiegata a tutti» (DeriveApprodi, 2012), che Ferrero ha illustrato a Pubblico la sua proposta per l’unità della sinistra e ha spiegato in cosa si differenzi dalle altre opzioni in campo, molte delle quali oggetto di confronto e di dibattito nei dieci giorni di festa metalmeccanica che si sono appena conclusi.
Partiamo dal contesto europeo. Volenti o nolenti, il futuro politico dell’Italia e di tanti altri paesi dell’Ue sembra essere oggi ipotecato dal fiscal compact e dalle politiche di bilancio restrittive che questo comporterà negli anni a venire. Per l’Italia il fiscal compact è un suicidio. Cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando: nei prossimi anni, per vent’anni, ogni anno, il nostro paese dovrà tagliare 45 miliardi di euro dal debito pubblico. Faccio notare, per dare un’idea delle implicazioni di questa scelta, che tutto il sistema sanitario italiano, mazzette e sprechi compresi, costa 130 miliardi di euro all’anno. Una sforbiciata simile significa fare un massacro dello stato sociale, privatizzare quasi tutto, svendere le aziende pubbliche che rimangono, a occhio e croce anche vendere l’oro della Banca d’Italia… Oltre al definitivo smantellamento del welfare, questo vuol dire far precipitare il paese in una condizione di recessione e di indebitamento permanente.
Un destino «greco», parrebbe di capire…
Magari più lentamente, molto più lentamente, ma la direzione è quella. Su un miliardo di aiuti che prende, la Grecia ne spende 900 milioni per ripagare gli interessi sul debito. Buona notte, dico io… Da una condizione del genere non si esce più, si cade in una spirale di recessione e indebitamento. Per questo, quando discutiamo di politica, a chi promette di andare al governo e di finanziare la sanità, le pensioni, ecc. va innanzitutto chiesto che posizione assume sul fiscal compact, se è deciso a rimetterlo veramente in discussione. Altrimenti, quello che si sta facendo è prendere in giro la gente.
Il riferimento è a un eventuale, futuro governo di centrosinistra?
Certo, e anche a tutti quelli che, da sinistra, insistono nel riproporre lo schema di alleanze che abbiamo già sperimentato in passato e che hanno dimostrato di essere delle gabbie.
Ma i governi di centrosinistra del passato sono stati sotenuti anche da Rifondazione Comunista, e lei stesso ha fatto parte di uno di quei governi in qualità di ministro…
Appunto, so di cosa sto parlando. Noi ci abbiamo provato, ma ci siamo trovati a sbattere la faccia contro il fatto che eravamo nella stessa maggioranza parlamentare con forze a noi totalmente estranee, che rappresentavano interessi economici e finanziari ben precisi. Un aneddoto può illustrare bene quello che sto dicendo. Quando ero alla Solidarietà Sociale avevo fatto un provvedimento per bloccare gli sfratti degli anziani ultrasettantenni e delle famiglie che avevano al loro interno portatori di handicap. Era un cosa di semplice buon senso, che mi aveva guadaganto il plauso di una realtà come la Caritas, non certo un’organizzazione rivoluzionaria. Bene, votiamo in consiglio dei ministri: tutti d’accordo. Andiamo al Senato, e manca la maggioranza. Questo perché Dini e una manciata di altri senatori, molti dei quali prendevano soldi dagli immobiliaristi anche per le loro campagne elettorali, stranamente non si erano presentati in aula. Tre mesi dopo, ci riprovo, e la cosa si ripete tale e quale. Sa come sono riuscito a far passare quel provvedimento? Telefonando ad Alemanno, della destra sociale, e chiedendogli se non fosse d’accordo con il merito di quella proposta che non aveva altro obiettivo se non quello di una tutela immediata degli interessi di categorie molto deboli. È dovuto intervenire Storace, che era capogruppo di An, a favore del provvedimento. Così è passato. Altrimenti, contando sulla mia, di maggioranza, non sarei riuscito a farlo passare.
Altri, tuttavia, come ad esempio Vendola, pensano che, se non ci si vuole condannare ad un ruolo meramente testimoniale, non si può prescindere da un rapporto di qualche tipo con il Pd e con i suoi elettori.
Guardi, io ho 51 anni e penso che si può anche smettere di fare politica. Però, soprattutto, bisogna smetterla di prendere in giro la gente. Se uno dice che va al governo con il Pd, stante il fiscal compact, e che farà politiche redistributive, sta semplicemente mentendo. Io dico che ci abbiamo già provato a governare col Pd e a fare delle politiche di sinistra. Ma davvero pensiamo di poter fare qualcosa di buono per i lavoratori e le lavoratrici italiani se andiamo al governo con Matteo Renzi? E Renzi, nel Pd, non è un fenomeno isolato… Sono in tanti a pensarla come lui, a ritenere che bigogna proseguire con l’agenda Monti e che bisogna stare con Marchionne «senza se e senza ma», come disse il sindaco di Firenze nei mesi dei referendum di Pomigliano e Mirafiori.
Ma la stessa Fiom, che pure non è e non vuole diventare un partito politico, in questi ultimi giorni ha insistito sul fatto che bisogna rimettere al centro la rappresentanza politica del lavoro senza rinunciare ad incidere nei processi reali. E questo, nell’ottica degli stessi metalmeccanici della Cgil, implica di necessità un confronto col Pd, o per lo meno con la sua componente più antiliberista e meno allineata a Monti…
Rispetto la posizione della Fiom, ma noi pensiamo invece che la strada sia un’altra. Si tratta di una strada piuttosto semplice, oltretutto. La cosa da fare è banale. Bisognerebbe mettere insieme quelli che sono contro il governo Monti da sinistra: dall’Italia dei Valori, a Sinistra Ecologia e Libertà, alla Federazione della Sinistra, passando per tutte quelle persone, che sono la maggioranza, che pur essendo di sinistra non hanno alcuna tessera in tasca. Includendo ad esempio anche pezzi di mondo cattolico, che non è per forza tutto sulle posizioni oscurantiste di Ratzinger.
Una sorta di Syriza italiana, come lei ha più volte auspicato?
Certo. Nel resto d’Europa lo stanno già facendo. Lo stanno facendo in Portogallo con il Bloco de Esquerda, in Spagna con Izquierda Unida, in Germania con la Linke, in Grecia con Syriza e in Francia con il Front de Gauche. Noi siamo in ritardo. Perché la questione non è se questa Europa regge o meno. È sicuro che così non regge, perché l’area euro non è semplicemente «a due velocità», è un’area in cui c’è una divaricazione fra paesi che sono ricchi e diventano sempre più ricchi e paesi che sono poveri e diventano sempre più poveri. Il punto è capire se le politiche europee saranno messe in discussione da destra o da sinistra. Se non andiamo rapidamente a questa ricomposizione delle forze del lavoro, il rischio è che del sentimento antieuropeo si avvantaggino forze neonaziste come Alba Dorata. La Fiom lo capisco che è un sindacato, ma se usasse l’autorevolezza che si è guadagnata sul campo per favorire questo processo di riaggregazione ritengo che svolgerebbe un servizio utile in primo luogo ai lavoratori che in questi anni ha difeso meglio e più di altri.
E come risponde a chi le dice che una coalizione, o una lista «anti Monti» potrebbe essere un’iniziativa lodevole ma incapace di incidere? Molti a sinistra pensano che non si possano cambiare le cose senza andare al governo…
Tanto per cominciare, una lista del genere, una coalizione che proponga delle politiche veramente alternative, secondo me, potrebbe aspirare tranquillamente a percentuali a due cifre. Ma, soprattutto, dobbiamo tenere ben ferma in mente una cosa. Si possono anche perdere le elezioni, ma se si costruisce una nuova entità che coerentemente si batte al fianco dei lavoratori e contro le politiche di austerità, esattamente come hanno fatto i metalmeccanici della Cgil negli ultimi anni, si può «incidere» e contare molto anche stando all’opposizione. Del resto, è un fatto che il Partito Comunista, in passato, sia riuscito a cambiare il paese stando in minoranza molto più di quanto non siamo riusciti a fare noi andando al governo. Se invece, per la terza volta, riproiettiamo un film già visto, andiamo al governo col Pd e poi emerge che non riusciamo ad ottenere un cambiamento concreto nella condizione di vita delle persone, è facile che il disagio che c’è venga intercettato da un Grillo o, addirittura, dall’estrema destra. Cioè la gente magari finisce per esprimere una protesta rabbiosa, di pancia, «manda a stendere», per così dire, la classe politica, ma questo mandare a stendere non produce un cambiamento della società, perché non produce coscienza, non produce forza e organizzazione dal basso. Per certi versi, la situazione europea è oggi simile a quella degli anni ’30. Non è più tempo di giochi tattici.
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