di GIUSEPPINA CIUFFREDA
«Capitalism and Freedom», forse il testo più noto di Milton Friedman, il padre del neo-liberismo, è una pietra miliare della controffensiva lanciata nel dopoguerra dalla destra statunitense contro le politiche dello stato.
Nel 1962, anno di pubblicazione, il contesto è la guerra fredda. La tesi di Friedman, sulla scia di «The Road to Serfdom» di Frederich von Hayek (1944), è semplice: la libertà economica assicura benessere a tutti e genera libertà politica mentre l’intervento statale finisce in dittatura. Gli Stati Uniti capitalisti sono il baluardo del mondo libero mentre l’Unione Sovietica è la patria del totalitarismo. Difendere il free market è quindi fondamentale e gran parte del testo di Friedman è una critica durissima al ruolo dello stato nel suo Paese, ancora forte dopo il New Deal di Franklin D. Roosevelt ispirato da Keynes. La prefazione del 1982 al testo è un sospiro di sollievo per l’avvento di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, quella del 2002 un peana alla sorti magnifiche mondiali del neo liberismo da lui delineato, con un difetto: riflessione insufficiente sul fatto che la libertà politica, pur desiderabile, non si è rivelata condizione necessaria per la libertà economica.
Eppure doveva saperlo da tempo visto che in Cile è stato consigliere economico di Pinochet, autore del violento colpo di stato militare che sopprimeva il legittimo governo socialista di Allende. Torniamo al testo. Friedman è morto nel 2006, un anno prima dell’esplosione della più grande crisi capitalistica dalla Grande Depressione, acme di una serie trentennale di crisi economiche, finanziarie, sociali e ambientali. La realtà rivela la natura ideologica delle sue teorie.
Dopo più di trent’anni di egemonia neoliberista «perseguire ciascuno il proprio profitto» non ha portato «il massimo vantaggio» per tutti, anzi le ineguaglianze si sono accentuate a favore di oligarchie mondiali che hanno aumentato la loro ricchezza e il loro potere a spese del lavoro e della natura. Il mercato dunque non ha affatto «imperfezioni» momentanee che una futura compiuta concorrenza (il Sol dell’Avvenire capitalista) avrebbe colmato e non produce quella libertà politica data per certa.
Decisioni centralizzate, potere incontrastato di corporation, finanza, stati, organismi sovranazionali e consessi di natura ambigua sono la norma mentre politiche economiche e di sicurezza erodono la possibilità di partecipazione dei cittadini anche grazie a un controllo attuato attraverso tecniche sofisticate di manipolazione delle masse, affiancate da repressioni brutali.
Il capitalismo che oggi fa crescere il Pil non promuove la libertà politica ma quel liberismo senza democrazia gestito dallo stato che appassiona e meraviglia l’«Economist». Domande inevase: da quale contesto culturale e sociale è nata storicamente la libertà politica e quale è il suo rapporto con la responsabilità e la giustizia? Farla discendere da un modello economico che nega il contratto sociale riduce la libertà, impulso umano fondamentale e complesso (Isaiah Berlin, Michel Foucault, Hans Jonas, Tzvetan Todorov ), a mera dinamica di accordi mercantili.
Fonte: Il Manifesto
Comments Closed