Economia, Politica

Il catastrofico day after per gli italiani

di Vladimiro Giacché

Caso Ilva e caso Alcoa. Due storie molto diverse tra loro, che hanno però anche qualcosa in comune. In entrambi i casi, si tratta di ex imprese pubbliche che sono state privatizzate.
È un buon esempio di quanto pesino tuttora sulla nostra economia gli esiti delle privatizzazioni degli anni Novanta. Già questo sarebbe un ottimo motivo per occuparsene. Ma non è il solo. Oggi si torna a parlare della vendita di proprietà pubbliche per ridurre il debito. Sarebbe una buona idea? Capire cosa è successo venti anni fa può aiutarci a rispondere a questa domanda.
1) Dal 1992 al 2000 la gran parte dell’industria di Stato e delle banche pubbliche è stata posta sul mercato. Si tratta del più ampio processo di privatizzazione mai realizzato in Occidente. La tecnostruttura guidata da Mario Draghi, all’epoca direttore generale del Tesoro (che mantenne la carica sotto 6 diversi ministri), privatizzò imprese statali per un valore di 220.000 miliardi di lire, oltre 110 miliardi di euro.

Questo rispondeva al primo obiettivo delle privatizzazioni: fare cassa per ridurre il debito pubblico ed entrare nel club della moneta unica. Anche se in molti casi sarebbe stato più conveniente per lo Stato mantenere il controllo delle imprese e incassare ogni anno un dividendo.
2) Ma c’era anche un secondo obiettivo: ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e aumentare la concorrenza. Come scrisse Dario Scannapieco, membro del team di Draghi al Tesoro e oggi vicepresidente della Bei «si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità ed urgenza di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione Monetaria Europea, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo dello Stato ed alla riforma, in senso maggiormente concorrenziale, dei mercati ». La prima cosa fu realizzata, la seconda no. Ma è proprio la presenza di concorrenti che costringe le imprese ad adottare comportamenti efficienti, mentre non esiste alcuna dimostrazione scientifica della maggiore efficienza dell’impresa privata rispetto all’impresa pubblica in quanto tale. Tra le società privatizzate vi erano monopoli naturali, per definizione non soggetti alla concorrenza (si pensi alle autostrade). In altri casi, non furono attuate le necessarie liberalizzazioni prima di privatizzare, e quindi le imprese privatizzate poterono godere di una rendita di monopolio.

Una ricerca condotta anni fa da Giovanni Siciliano sulle banche italiane privatizzate evidenziò dati deludenti sia in termini di produttività, che di redditività; a quest’u l timo riguardo le banche piccole non privatizzate andavano addirittura meglio di quelle privatizzate. Tanto da indurre lo stesso Siciliano a concludere: «È difficile dire se le privatizzazioni bancarie abbiano «funzionato».
3) Infine, il terzo obiettivo delle privatizzazioni: rafforzare con la quotazione in borsa delle imprese ex pubbliche il mercato azionario italiano, introdurre anche in Italia il modello della public company anglosassone (l’impresa quotata con un capitale distribuito tra molti azionisti), inducendo anche molte imprese private a quotarsi e dando vita così alla «democrazia economica dei piccoli investitori». Da questo punto di vista il fallimento delle privatizzazioni è stato pressoché totale. È vero che negli anni delle privatizzazioni i tre quarti della capitalizzazione di borsa furono costituiti da società ex pubbliche. Ed è vero che molti risparmiatori (e anche molti lavoratori delle ex imprese pubbliche privatizzate) parteciparono alle privatizzazioni. Ma già nel 2003 Luigi Spaventa, all’epoca presidente della Consob, osservò che «la maggior parte delle principali società private ad azionariato diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro delisting [cancellazione dalla Borsa] o alla determinazione di un assetto di controllo fortemente concentrato».

Da allora, la concentrazione del controllo delle imprese quotate è ulteriormente cresciuta, pochissime società private si sono quotate e la capitalizzazione complessiva di Borsa a maggio 2012 è oggi inferiore al 20% del prodotto interno lordo (era maggiore nel 1996).
In compenso, molti nomi storici del capitalismo italiano si sono comprati imprese pubbliche in vendita. Rivolgendosi in particolare verso quelle che forniscono servizi di pubblica utilità. Il perché è presto detto: queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che spesso può godere di una rendita di monopolio o di oligopolio. Si tratta per di più di una fonte di profitti sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo (le bollette si pagano sempre), ma anche alla concorrenza internazionale.
A consuntivo, il risultato delle privatizzazioni per il sistema economico italiano è a dir poco deludente. La presenza del settore pubblico nell’economia si è ridotta al lumicino, ponendo la parola fine all’economia mista che aveva caratterizzato il nostro paese per molti decenni e privando lo Stato di strumenti fondamentali di politica industriale e anche di intervento nella congiuntura (si pensi al costo delle tariffe autostradali, o alla restrizione del credito alle imprese a cui stiamo assistendo).
In compenso, le privatizzazioni hanno rappresentato una provvidenziale scialuppa di salvataggio per capitalisti in difficoltà nel settore manifatturiero. Pirelli comprò Telecom nel 2001, quando entrarono in crisi i settori cavi e sistemi di telecomunicazione, Benetton lanciò l’offerta pubblica di acquisto sulle azioni Autostrade nel 2003, dopo aver chiuso il 2002 con un risultato operativo in calo del 15% e una perdita netta di 10 milioni di euro. Come scrisse anni fa Giangiacomo Nardozzi, «la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili profitti». Se i primi undici anni del nuovo millennio hanno visto la crescita più bassa dal dopoguerra il motivo va ricercato anche in questo. Il consenso quasi unanime che le privatizzazioni hanno ricevuto in sede parlamentare è probabilmente uno dei motivi per i quali non si è mai sviluppato un effettivo dibattito sui loro effetti. «Pubblico» intende contribuire a colmare questa lacuna. E vuole farlo a partire da un punto di vista particolare. Le privatizzazioni sono state anche un processo che ha coinvolto milioni di lavoratori. La loro voce non è stata mai ascoltata.

da Pubblico

Fonte: www.rifondazione.it

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