di Marco Revelli
«Chi rappresenta, oggi, il lavoro?», E soprattutto: «Chi lo rappresenterà nell’Italia del dopo-elezioni?». E «come?» Queste domande, che la Fiom aveva posto il 9 giugno, chiamando le forze politiche della sinistra a confrontarsi a Roma, al Parco dei Principi, hanno assunto in questi mesi una sempre più drammatica rilevanza. Che si chiama Taranto, Alcoa, Fiat, Termini Imerese, Carbosulcis… con gli operai costretti a scendere nelle viscere della terra (a 400 metri di profondità), ad arrampicarsi in cielo, su ciminiere e carro-ponti a decine di metri di altezza, a esporre i propri corpi e le proprie vite nude, per forare il muro di silenzio che si è alzato intorno alla loro condizione. E rimediare al vuoto di parola – e di rappresentanza nello spazio pubblico – che affligge oggi il lavoro. Senza che nel mondo della politica «ufficiale» nulla accada.
La cronaca, a saperla leggere, ci dice che un punto-limite è stato raggiunto. Sulla soglia del disumano. Quando, come accade a Taranto, i lavoratori dell’Ilva sono posti di fronte all’alternativa mortale – biologicamente mortale – tra la difesa della propria vita e la difesa del proprio lavoro (dal quale dipende a sua volta la vita), vuol dire che il conflitto tra «capitale e lavoro» è uscito dalla sua dimensione fisiologica, ed è diventato questione morale. Problema che attiene ai fondamenti primi della nostra vita associata.
Nodo che, se non sciolto a favore della vita, finirà per perderci tutti. Così come la vicenda – meno atroce nei suoi aspetti immediati, ma altrettanto scandalosa dal punto di vista etico e sociale – della Fiat di Marchionne, anch’essa protagonista di un ricatto mortale imposto ai propri operai: rinunciare ai propri diritti e al controllo sulla propria vita o rinunciare al lavoro, perdere se stessi o perdere il proprio posto. Anch’essa segnata da un’asimmetria assoluta tra il potere “del padrone” e quello del “lavoro”. E dalla tracotante mancanza di sincerità e di credibilità di una proprietà irresponsabile, legibus soluta, indifferente a ogni impegno e a ogni patto. E poi, le decine di migliaia di «esodati», dimenticati in una terra di nessuno dall’incompetenza di una ministra del lavoro distratta. Le remunerazioni dei lavoratori dipendenti precipitate al di sotto del tasso di inflazione. I precari licenziati silenziosamente per «fisiologica» fine del contratto… E ogni volta, all’esplodere di un nuovo dramma, o alla pubblicazione di un nuovo dato, la politica che balbetta, inconsapevole della sua perdita di radici sociali.
E poi, le decine di migliaia di «esodati», dimenticati in una terra di nessuno dall’incompetenza di una ministra del lavoro distratta. Le remunerazioni dei lavoratori dipendenti precipitate al di sotto del tasso di inflazione. I precari licenziati silenziosamente per «fisiologica» fine del contratto… E ogni volta, all’esplodere di un nuovo dramma, o alla pubblicazione di un nuovo dato, la politica che balbetta, inconsapevole della sua perdita di radici sociali. E il governo che gira la faccia dall’altra dopo aver messo pesantemente le mani nelle vite dei lavoratori per sottrarre reddito e diritti, coerente con il dogma liberista (il suo aspetto più devastante e asociale) che impone di ri-privatizzare il lavoro. Di ricacciarlo indietro rispetto a quella piena rilevanza di «soggetto pubblico» che aveva conquistato nel Novecento, e che aveva trovato piena sanzione nello stesso articolo 1 della Costituzione, per ridurlo, di nuovo, a fatto privato. Di «diritto privato». A contratto individuale tra singolo lavoratore e impresa, con il peso dell’immensa distanza che si dispiega tra l’impotenza dell’uno e l’estrema potenza dell’altra…
E tutti insieme, però, poteri pubblici e pubblici «rappresentanti», impegnati a scaricare il peso insostenibile dell’ «interesse generale» sulle fragili spalle del lavoro (di quegli stessi lavoratori a cui tuttavia si negava contemporaneamente riconoscimento di «soggetto generale»), con un esercizio di ferocia non dichiarata inquietante. Feroce è ciò che avviene con i lavoratori dell’Ilva e con i cittadini di Taranto – quelli costretti a vivere sotto la spada di Damocle di un disastro ambientale dal profilo mostruoso -, chiamati un po’ da tutti a «farsi carico» del fatto che quello stabilimento ha un interesse strategico per l’economia nazionale, che vale parecchi punti di Pil, che senza industria pesante non siamo nessuno nel mondo (come se con quell’industria lo fossimo), senza che nessuno si preoccupi davvero di chiedere ai più diretti responsabili di pagare i danni prodotti… Come feroce era stato, meno di due anni or sono, l’indecente scaricabarile di capi partito, amministratori, ministri sulla questione Fiat, quando si chiese ai cinquemila di Mirafiori, e prima ai quattromila di Pomigliano – uomini e donne provati da mesi e mesi di cassa integrazione, con i salari ridotti all’osso – di «farsi carico» della permanenza «di Fiat» (sic!) nel nostro Paese. Di permettere a Marchionne di effettuare quel rilancio da 20 miliardi che oggi sappiamo bene in che cosa consistesse…
Per questo è importante il «convegno-incontro» che si terrà a Torino i prossimi sabato e domenica, dedicato appunto al lavoro. A come ridare la parola al lavoro, e rimetterlo al centro della vicenda pubblica italiana, con la sua dignità di protagonista collettivo. Promosso da Alba, con la partecipazione di esponenti della Fiom, intellettuali, giornalisti, esperti e delle più significative realtà sociali italiane, a cominciare da Pomigliano, intende proseguire il discorso avviato il 9 giugno dalla Fiom su quelle domande iniziali che non hanno finora trovato risposte «in alto». Nelle sedi istituzionali della «rappresentanza». Si parlerà dunque di diritti – di diritti negati, o sottratti, o vulnerati – e di referendum, per ripristinarli (saremo alla vigilia dell’inizio della raccolta delle firme che ci dovrà vedere tutti impegnati), con la presenza di giuslavoristi e di costituzionalisti. Del frammentato mosaico del lavoro – sempre più scisso tra lavoro stabile e precario, tra lavoro e non lavoro, tra lavoro industriale e altro lavoro, a cominciare dal lavoro di cura…), alla ricerca di un quadro di rivendicazioni unificante (primo fra tutti un sistema di garanzia del reddito), dando voce ai protagonisti delle diverse realtà produttive e sociali. Ci si occuperà delle forme di lotta più adeguate a questa fase di vertiginosa de-industrializzazione, guardando con attenzione alle esperienze di autogestione vincenti in altri Paesi. Ma si parlerà anche di Europa: dell’Europa che non vogliamo, certo (questa, che va chiudendo ogni strada all’idea stessa di «giustizia sociale»), e dell’Europa che vorremmo (che sappia difendere con orgoglio quel «modello sociale» che era stato il suo miglior prodotto storico e che sta malamente sacrificando sull’altare del pareggio di bilancio e di un rigore fine a se stesso).
Naturalmente a Torino si parlerà anche della prossima primavera elettorale, perché la rappresentanza del lavoro non sia più affidata a chi sul sacrificio del lavoro ha fondato – esplicitamente o implicitamente – la propria dissennata strategia. E perché quello che c’è oggi «su piazza» non garantisce nulla al lavoro: né parola, né rispetto. Se l’orizzonte politico restasse limitato alla forze che sono attualmente in parlamento e che si spartiscono lo spazio mediatico ufficiale, davvero «dopo Monti» non ci potrebbe essere che Monti, in prima o per interposta persona. In carne ed ossa o in effige. Non c’è Vendola o primarie che tengano. Ha purtroppo ragione Eugenio Scalfari, che qualche giorno fa in televisione ha detto – senza forse ben rendersi conto delle implicazioni dell’affermazione – che chiunque vinca le prossime elezioni «la traccia è già scritta». Non potrà che recitare a copione. Tutto ciò su cui ci si potrà distinguere (immagino tra destra e sinistra) è «il condimento della pasta: se metterci il basilico o il prezzemolo» (ha detto proprio così!), ma il piatto è quello, e non si discute. E’ la ricetta-Monti: la Bce sta lì, a Francoforte, per farsene garante.
Scalfari ha ragione, però, solo se non dovesse emergere – anche dentro lo spazio elettorale – nessuna credibile alternativa al dogma liberista imperante sul continente: in assenza di una cultura politica radicalmente altra – razionale, realistica, ma «altra» rispetto a quel paradigma mortale – davvero non resterebbe che «morire montiani», soffocati da primarie, Montezemolo, finiecasini, presi nella tenaglia orribile tra rottamatori e rottamati. Per questo è così importante rompere quel monopolio dello spazio pubblico: fare tutto il possibile perché anche sul terreno elettorale si condensi una galassia di forze e culture «di alternativa», che spezzino il cerchio chiuso dell’esistente, sulla base di una chiara individuazione delle discriminanti da mettere al centro di un percorso collettivo «verso il 2013». A questo sarà dedicata la domenica mattina, per un confronto vero su come lanciare una proposta che sia all’altezza della crisi della politica e di questi partiti. Anche in questo caso non si può proprio più aspettare. Se non ora, quando?
Il Manifesto – 03.10.12
Comments Closed