Slot art machine. Il grande business dell’arte contemporanea (DeriveApprodi, pagg. 247, 17,00 euro), di Roberto Gramiccia, è un libro su cui è molto utile ma anche piacevole riflettere. L’opera propone al lettore diversi piani di lettura, il principale dei quali è rappresentato da un prisma di riflessioni sulla natura ipermercatista e truffaldina del sistema dell’arte, sul suo rapporto consustanziale con l’industria culturale e sulla funzione egemonica che entrambi esercitano sugli assetti di una cultura sempre più espressione fedele degli interessi economici – ma anche egemonici – del neoliberismo.
Sotto questo profilo, lo scopo principale che l’autore si propone è quello di – parole sue – “superare i luoghi comuni sulla neutralità dell’arte e della cultura, sulla libertà degli artisti, sulla fantasia al potere, sull’oggettiva e intrinseca capacità del mercato di selezionare i valori”. E’ proprio dalla necessità di smascherare questi imbrogli e questa macroscopica mistificazione che nasce il titolo del libro, prendendo a prestito la slot machine, oggetto simbolo di un capitalismo postmaturo e mascalzone.
Questo oggetto somiglia al sistema dell’arte, “una macchina, cioè, costruita come tutte le slot per fare soldi imbrogliando la gente e premiando ogni tanto e casualmente qualcuno, allo scopo di mantenere in vita l’illusione di facili guadagni. Nel caso del sistema dell’arte la macchina è truccata due volte, la prima come tutte le slot machine, la seconda perché i soldi non vengono distribuiti a caso ma solo ad alcuni giocatori (gli stessi che l’hanno costruita). Essi sono i grandi mercanti (…), i galleristi più potenti, le case d’asta internazionali, i musei che contano, i collezionisti professionali, le banche, gli interrnational curators che fanno tendenza e la nuova vincente categoria degli artisti manager”.
Devo dire che l’efficacia abrasiva del titolo corrisponde a un risultato raggiunto. Gramiccia, cioè, attraverso una narrazione rigorosa ma scorrevole e seducente, decostruisce la macchina del sistema dell’arte, svelandone gli interni meccanismi, esclusivamente finalizzati a raggiungere due scopi principali. Il primo è quello di garantire elevatissimi profitti agli investitori più potenti (le case d’asta internazionali non conoscono crisi); il secondo è quello di autolegittimarsi culturalmente, contribuendo ad imporre il dogma dell’ultimo millennio: “ciò che più vale è ciò che più costa” (altro valore non è dato).
E così l’arte diventa una merce come le altre. Anzi peggiore delle altre, visto che ad essa rimane connesso il solo valore di scambio (quello cioè potenzialmente capace di produrre profitto), mentre il valore d’uso scompare. Per secoli il valore d’uso dell’arte ha presentato caratteristiche particolari, talmente particolari da rendere l’arte una merce speciale, talmente speciale da non poter essere considerata una merce nel senso proprio del termine, perché l’uso ad essa correlato attingeva alla sfera della spiritualità, del gusto e dell’amore per il bello e per il buono. Un’esperienza riservata a coloro i quali, nel corso dei secoli, hanno avuto il privilegio di goderne in qualità di fruitori o (i più fortunati) di proprietari. Oggi questa nobile ingaggio spirituale va scomparendo, se è vero che la maggior parte dei grandi collezionisti comprano opere milionarie, come pacchetti azionari, su consiglio di consulenti specializzati pagati dalle banche e, poi, le rinchiudono dentro i caveau. Del resto quale sarebbe il piacere di tenere a portata di vista un coniglietto colorato di Jeff Koons o un inutile giocattolo di Takashi Murakami?
Dirò rapidamente degli altri piani di lettura che rendono questa opera qualcosa di più e di diverso da un semplice se pur utilissima disamina sociologica sui temi prescelti. L’ampia raccolta di brevi saggi, infatti, distribuita in tre parti, oltre a riferire circostanze rivelatrici e probanti rispetto alle tesi dell’autore (paradigmatico il capitolo dal titolo Cloaca Art), ci offre anche una selezione di ritratti veramente appassionante e un’intera parte dedicata alle idee e alle teorie in arte.
Da Antonello da Messina, fino a Jannis Kounellis, passando attraverso Gombrich, Togliatti, Picasso e i maestri immensi ma ignorati dalla grande informazione, come Antonio Lopez Garzia: una carrellata che, attraverso lo spartiacque rappresentato dalla rivoluzione caravaggesca, dimostra ciò che dell’arte ha resistito per secoli e cioè l’attenzione al suo valore intrinseco, universale e metastorico. Lo stesso valore che oggi il mercato tende a polverizzare. Dell’ultima parte risulta particolarmente interessante la rilettura critica di un’ estetica marxista a cui evidentemente moltissimo dobbiamo (specie nelle preziose varianti di Gramsci, Benjamin, Lukacs, Galvano della Volpe) ma che è ancora suscettibile di interessanti riletture e approfondimenti, nei quali, con esiti non scontati, l’autore si cimenta. Un’ultima, non per importanza, ragione per leggere il libro è rappresentata certamente dalla splendida prefazione di Giuseppe Prestipino che coglie dell’opera, fra l’altro, i riferimenti a Gramsci e alla sua eretica, immensa lezione.
Vittorio Bonanni
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