di Dino Greco
“Se non entriamo in parlamento siamo finiti, condannati all’inesistenza”: il tombale refrain è tornato ad agitare la discussione nella Federazione della sinistra in questa tormentata antivigilia elettorale.
Stringersi – e stringersi comunque – in un’alleanza che “possa vincere” è diventato per taluni la condicio sine qua non, lo snodo dirimente di ogni altra questione. Dove il “per fare che cosa”, smarrito nei due anni di partecipazione al governo Prodi, si riduce ad una variabile del tutto secondaria. Come se la cooptazione di qualche comunista nella coalizione di centrosinistra potesse cambiare o, più modestamente, correggere la linea scolpita nella Lettera di intenti dei democratici e dei progressisti (fedeltà ai trattati europei, alleanza di legislatura con il centro liberale, voto a maggioranza nei gruppi – o nel gruppo, chissà… – per risolvere eventuali dissensi, e così via).
Ma se malgrado ciò si insiste è proprio perché il principio di realtà solennemente invocato è venuto meno.
Oppure, più semplicemente e fuori da ogni ipocrisia, è ad altre e più prosaiche convenienze che si guarda con trepidante partecipazione.
Correndo il rischio di espormi a qualche caricaturale ironia, vorrei ricordare che i comunisti non sono nati per entrare in parlamento, ma per fare la rivoluzione.
Dove fare la rivoluzione non significa, ovviamente, rincorrere l’illusione di mitici appuntamenti con la storia, o ripudiare ogni forma di gradualismo, o scansare la fatica di costruire e perseguire “obiettivi intermedi” nel nome di una palingenetica purezza.
Tanto meno significa sottrarsi ad un impegno diretto, qui ed ora, per migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, per impedire gli esiti più nefasti della svolta reazionaria in pieno svolgimento, anche attraverso battaglie difensive, forse meno epiche ed esaltanti, ma non meno importanti delle impetuose avanzate.
Ma tutto questo non ha niente a che vedere con la richiesta di una cooptazione pietosa in una coalizione che ha impresso nel proprio programma e più ancora nella propria cultura lo stigma della più dura politica liberista: una politica che è il diretto opposto di un’uscita da sinistra dalla crisi, persino in versione blandamente riformista.
Farsi sedurre dal canto di queste sirene non apre alcun varco, men che meno sviluppa una dialettica reale ma, al contrario, sospinge su un binario morto: se non puoi muovere le cose, ma tuttavia fingi di crederlo possibile, vuol dire che il presunto mezzo (entrare nel parlamento a costo di farlo dalla porta di servizio e per grazia ricevuta) diventa lo Scopo (quello con la esse maiuscola), valido in sé.
Del resto, tutte le derive politiche della sinistra, tanto quelle socialdemocratiche quanto quelle autoritarie, si sono prodotte quando si sono scambiati i mezzi con i fini, quando la tattica ha sostituito la strategia, quando la spregiudicatezza politica è sconfinata nell’opportunismo.
Soccombere a questa logica perversa che relega – essa sì – ad un ruolo di pura testimonianza produrrebbe solo il risultato di scambiare un certificato di esistenza in vita con la propria sostanziale resa culturale e politica: la secessione da quella parte del paese che paga duramente la crisi e la rinunzia ad un progetto di trasformazione dei rapporti sociali.
La relativa visibilità mediatica che il potere graziosamente concede in cambio dell’omologazione e dell’internità all’ideologia dominante è il “patto faustiano” che dobbiamo scansare.
Lavorare alla costruzione di un polo alternativo della sinistra antiliberista non è dunque la velleità minoritaria di un manipolo di estremisti dediti alla propria autocelebrazione in uno splendido isolamento, ma la sola cosa seria che possiamo fare e a cui tuttavia non dedichiamo ancora l’energia e l’intelligenza necessarie.
Eppure, senza un’autonoma capacità di critica e senza un autentico conflitto politico che le dia gambe ed efficacia, la contesa si svolge fra schieramenti sostanzialmente intercambiabili, perché tutti interpreti passivi di uno spartito preconfezionato e blindato a doppia mandata nei santuari del capitalismo finanziario che cacciano la politica – tanto quella nazionale quanto quella delle amministrazioni decentrate – in un cul-de-sac.
L’appello “Cambiare si può” coglie dunque nel segno, squaderna uno scenario nuovo, rompe la coazione ripetitiva di una politica ossificata, prigioniera dei vizi antichi delle alleanze coltivate in vitro, offre un terreno politico e programmatico di sicuro interesse, traccia un chiaro discrimine nei confronti delle forze inscritte nel perimetro della politica montiana, indica un percorso capace di contrastare con realismo e determinazione i ricatti della “Troika”, disegna le coordinate di una linea non soltanto oppositiva, ma concretamente alternativa, dunque credibile, superando l’impasse – indice di subalternità – di chi si illudeva che le sofferenze inflitte a tanta parte del popolo potessero, di per se stesse e quasi automaticamente, mutare il senso comune e generare il miracolo di una svolta a sinistra.
La proposta, dichiaratamente orientata al pieno recupero del progetto politico della Costituzione, è quella di aggregare – attraverso una procedura democratica, partecipativa e paritaria – un polo di sinistra che abbia nei contenuti il solo elemento di coagulo. Al fine di agire ora, anche elettoralmente, per fare vivere un’alternativa di governo alla tecnocrazia montiana, nonché ai populismi e ai leaderismi di ogni risma.
Noi dobbiamo contribuire alla realizzazione di questo progetto con tutte le risorse di cui disponiamo.
E’ un lavoro da fare subito e che può persino dare impulso alla campagna referendaria in corso.
Un lavoro da non affidare puramente alla diplomazia degli stati maggiori centrali, ma da praticare nei territori, nei luoghi di lavoro e di vita, nelle mille pieghe della società civile, liberando il protagonismo dei nostri circoli, tessendo una rete – non solo virtuale – fra le tante soggettività con cui ci siamo incontrati e con cui abbiamo condiviso il conflitto sociale di questi anni.
Dovremo farlo con generosità, senza alcuna spocchia, ma anche senza sudditanze: Rifondazione entra in campo come tale, parte fra le parti (singole persone, associazioni, movimenti, ma anche partiti) che concorrono, ciascuna senza primazie, a costruire un progetto, un polo politico ed una lista che competerà con le altre nelle prossime elezioni.
Come appare vecchia, e sterile, di fronte al dischiudersi di queste novità, la divaricazione apertasi nella Federazione della sinistra soltanto qualche gorno fa.
Il fatto è – se non vogliamo renderci vittime di un’autofrode consolatoria – che lì è avvenuta una divisione molto seria: una divisione che riguarda cioè la strategia e non già la tattica elettorale.
Poi abbiamo deciso di “tenerla bassa”, di non amplificare la portata del dissenso, con l’intento dichiarato di non formalizzare l’irreversibilità della separazione e di non pregiudicare l’alleanza nelle prossime elezioni regionali della Lombardia, del Lazio e del Molise.
Capisco questa non peregrina preoccupazione, ma sollevo qualche domanda a cui bisogna offrire una risposta convincente: quale forza attrattiva verso l’elettorato potrà mai avere il simbolo di una Federazione che si è così chiaramente fratturata e che ora pare universalmente un contenitore vuoto?
E quale entusiasmo potrà suscitare all’interno dei soggetti, ancora virtualmente federati, quando questi saranno messi alla prova, solitamente già complessa, della formazione delle liste?
Non si avverte il rischio che, così facendo, i voti potenzialmente appannaggio di ciascuna forza non si sommino, ma si elidano?
E ancora: non sarebbe più utile e coerente, pur nel poco tempo a disposizione, lavorare anche regionalmente alla costruzione di intese e coalizioni più ampie, nel solco del progetto da cui dipenderà il nostro futuro politico?
Fonte: Ombre Rosse
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