La discussione del Comitato Politico Nazionale è stata una buona discussione che però aggrava i problemi che abbiamo davanti: noi abbiamo subito una sconfitta, una sconfitta elettorale pesante. A questa, ieri e oggi si è aggiunta una divisione del gruppo dirigente che è avvenuta in più direzioni.
La divisione nel gruppo dirigente riguarda varie cose, innanzitutto la politica: vi è chi dice che siamo stati troppo a destra, per paura. Dall’altra mi pare si afferma che non siamo stati abbastanza unitari sul versante moderato. Vi sono critiche politiche tra di loro opposte e ho sentito anche rilievi – che non ho ben capito – sul fatto che abbiamo sbagliato a Chianciano. Ritengo sarebbe opportuno esplicitare meglio questi rilievi in modo che si capisca bene cosa si ritiene che abbiamo sbagliato, ad esempio se si pensa che abbiamo sbagliato a proporre una svolta a sinistra rispetto al rapporto con il centro sinistra. Lo dico per avere chiarezza nel nostro dibattito interno. Ad esempio, io su Chianciano ho un enorme rimorso perché penso che come dice Guccini ci siamo arrivati per contrarietà. La battaglia politica andava data prima, prima che facessimo il guaio, perché il guaio grosso l’abbiamo fatto tra il 2006 e il 2008 con il governo Prodi. Penso che il punto di svolta è stato quello, basti pensare che Grillo nel 2006 dava indicazione di voto per le forze della sinistra di alternativa a partire da Rifondazione Comunista. In questo senso anch’io potrei discutere criticamente di Chianciano non pensando che siamo stati troppo netti ma pensando che ci siamo arrivati troppo tardi a correggere la linea e che quegli errori pesano ancora oggi.
In secondo luogo sono emersi problemi rispetto alla gestione del partito. Nello specifico mi pare che il sottoscritto è accusato contemporaneamente di essere troppo attento alle correnti, troppo pattizio e dall’altra di essere troppo di parte, per cui le aree, le correnti ci sarebbero perché il segretario non è stato capace, non ha voluto – questo sul piano politico conta poco – fare una sintesi.
Mi pare opportuno rispondere a questi rilievi. La linea che mi ha guidato è molto semplice, ho sempre cercato di fare la discussione politica in pubblico, cioè che i documenti della Direzione o del Cpn fossero chiari. La discussione politica è avvenuta alla luce del sole ed è stata sempre largamente unitaria. Ad esempio abbiamo discusso un questa sala se ci doveva essere la proposta all’Idv nella costruzione del polo alternativo. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso, in modo trasparente. Nel dibattito le posizioni esplicitate si son sempre potute esplicitare chiaramente e francamente non ho visto particolari militarizzazioni… Anche perché c’è un vantaggio: la stragrande maggioranza dei componenti il CPN non è fatta di funzionari di partito, è fatta da uomini e donne libere che si guadagnano da mangiare col loro lavoro o col tentativo di averne uno. Neanche se si volesse qui si potrebbe ricattare qualcuno!
Ho sempre tentato di fare così, di avere una chiarezza sull’indirizzo politico, di scrivere lo cose chiaramente e francamente non vedo particolari chiusure a sinistra: il 27 ottobre siamo andati in piazza al NO Monti day, ci siamo andati convintamente – anche se forse non tutti hanno partecipato – e lo abbiamo deciso in modo trasparente in Direzione Nazionale.
Parallelamente, nella chiarezza sull’indirizzo politico, ho sempre cercato di essere molto attento all’unità del gruppo dirigente nella gestione del partito. Ho sempre pensato, da Chianciano in avanti, che il trauma della divisione del gruppo dirigente centrale aveva prodotto un trauma dentro al partito, e che era compito del segretario di lavorare ad evitare che si riproducessero giorno dopo giorno nuove rotture dentro il gruppo dirigente.
In base a questo orientamento ho certo fatto anche degli errori: Sansonetti è rimasto a dirigere il giornale per mesi, visto che pareva che la scissione di Vendola da Rifondazione fosse legata alla eventuale rimozione di Sansonetti. Ho lavorato per evitare la scissione e penso sia stato giusto farlo. Così come quando abbiamo avuto la scissione, ho lavorato quanto possibile perché i compagni e le compagne che sono rimasti non venissero “schiacciati”, anzi venissero valorizzati.
Io ho lavorato in questo modo perché considero dovere politico di un gruppo dirigente di essere chiaro nella definizione dell’indirizzo politico ma poi di lavorare al massimo di unità del gruppo dirigente. Definire in modo chiaro l’essenziale e poi gestire unitariamente distinguendo le cose primarie da quelle secondarie. Di questo modo di procedere me ne assumo totalmente la responsabilità.
Aggiungo una cosa. Questo per me vale anche nel rapporto più in generale con il partito. Ad esempio l’ultimo errore – che nessuno mi ha imputato – l’ho fatto nella costruzione delle liste. Io ero super convinto che non mi dovevo candidare, lo consideravo un punto importante nella definizione del nostro profilo di partito. Dopo di ché, tutti quelli che ho sentito mi hanno detto: no, ti devi candidare, perché c’è il segretario deve rappresentare il partito e così via. Così ho accettato di essere candidato e nelle condizioni materiali in cui noi eravamo, se volevamo che il partito facesse campagna elettorale unitariamente, senza litigare al suo interno, se c’era Ferrero ci dovevano essere anche altri. La mia candidatura, richiesta da tutti, portava con se la candidatura della rappresentanza del gruppo dirigente. Questa attenzione a cosa pensava il partito, ci ha portato – io credo – a fare un errore politico. Ovviamente questo non c’entra nulla con il raggiungimento del 4%, ma si poteva forse evitare.
Quindi ho operato per avere una linea politica chiara e contemporaneamente il massimo di unità del gruppo dirigente. Questo ho fatto ed ha funzionato fino a 15 giorni fa, fino alle elezioni. Probabilmente se alle elezioni superavamo il 4% funzionerebbe anche adesso e invece, avendo perso, è saltata l’unità nel gruppo dirigente. Non credo che sia un grande risultato questa divisione. Per altro, lo segnalo per la cronaca, la richiesta di dimissioni al segretario era già oggetto di discussione anche prima. Credo di dover ringraziare l’elezione di Luigi De Magistris, per il fatto di non aver discusso negli stessi termini di oggi dopo le amministrative di qualche tempo fa. Perché allora – non un secolo fa, qualche tempo fa – la stessa aggregazione che oggi ha fatto il 2%, vinse le elezioni a Napoli, producendo un fatto politico di qualche rilevanza. Così come un anno fa, un’aggregazione similare ha vinto le elezioni a Palermo con Orlando. Quei successi elettorali hanno determinato il fatto che la richiesta di dimissioni, non siano state formalizzate già da tempo nel gruppo dirigente. Così come è curioso che dopo le regionali siciliane di pochi mesi fa, fossimo noi tutti, unitariamente a dire che Di Pietro aveva sbagliato pesantemente a non fare la lista unitaria alle elezioni regionali. Perché è vero che ci sono dei generali che sanno solo vincere la battaglia che hanno appena perso, ma ci sono anche dei generali che hanno ma memoria molto corta.
In ogni caso, il nodo che abbiamo davanti è che alla sconfitta elettorale si somma la divisione del gruppo dirigente. La cosa che vi chiedo con molta nettezza è che in questa situazione, certo non magnifica, il gruppo dirigente – questo gruppo dirigente qui, che qualcuno considera delegittimato a fare e dire qualsiasi cosa – invece debba decidere. Decidere con chiarezza.
C’è un torto che non possiamo fare al partito – mimando cosa hanno fatto i dirigenti di Lotta Continua alla loro organizzazione a metà degli anni Settanta – e cioè di distruggere il partito dall’alto, dissolvendo il gruppo dirigente. Questo non dobbiamo e non possiamo farlo. Il gruppo dirigente, che ha deciso nel bene e nel male a larga maggioranza quello che si doveva fare elezioni, fa il santo favore di indicare al partito cosa si deve fare domani. Poi, quando il partito cambierà il gruppo dirigente quel gruppo dirigente deciderà, ma per intanto c’è un minimo principio di responsabilità che fa sì che i compagni e le compagne debbono avere almeno qualcuno con cui poter litigare. Non si può, dopo una sconfitta, aggravarla producendo il vuoto cosmico con il dissolvimento del gruppo dirigente. Vi è una responsabilità collettiva che va del tutto al di la delle legittime scelte individuali ed è una scelta di responsabilità del gruppo dirigente in quanto tale.
Dopo passeremo a votazioni che – sentito il dibattito – non saranno unitarie. La cosa che dev’essere chiara è che le decisioni che verranno assunte valgono per tutti, qualsiasi decisione sia. La cosa che oggi non possiamo fare è dar luogo a un processo decisionale e poi ad un certo punto – facendo leva sull’entità delle divisioni – mettere in discussione la legittimità dell’organismo dirigente a decidere. Su questo dobbiamo essere al chiaro: questo Cpn non può uscire senza aver deciso cosa si deve fare, perché il segnale di una mancata decisione, rispetto al partito, sarebbe devastante.
Questo Cpn può sbagliare, come abbiamo fatto pare moltissime volte, ma non può non decidere. In questo senso dobbiamo reciprocamente darci un affidamento. Quello che viene deciso a maggioranza, sia una maggioranza larga, sia striminzita, viene applicato ed accettato da tutti. Dopo la sconfitta non possiamo mettere a rischio la tenuta del partito con una gazzarra nel gruppo dirigente. La traduco in un altro modo: la divisione del gruppo dirigente non dev’essere costituente la dissoluzione del partito, deve stare dentro il quadro delle regole che ci siamo dati perché la tenuta di quell’organizzazione politica che si chiama Rifondazione comunista è il nostro obiettivo, la pupilla dei nostri occhi.
Oggi dobbiamo scegliere una strada. Ovviamente io con la relazione ne ho proposta una e la sosterrò nelle votazioni, perché le altre non mi convincono. Il congresso subito a me non convince per una ragione di fondo che Ugo Boghetta ha sottolineato nel suo intervento.
Boghetta ha praticato una distinzione tra programma e progetto e ha detto “a noi manca il progetto”. Sono d’accordo. Detta con altre parole equivale alla considerazione che ho fatto che la nostra sconfitta elettorale era da far risalire principalmente al fatto che la gente non capiva bene qual era l’utilità del voto a Rivoluzione civile. Io penso che questo è il nostro problema, il progetto, la nostra ragione storica di esistenza qui ed ora nel nostro paese. Il senso di fondo della nostra impresa.
Badate, per certi versi penso che questo è stato il problema del Prc nel corso della sua esistenza. La differenza è che quando è nata Rifondazione comunista aveva dietro di sé il patrimonio del Partito comunista. Quando noi abbiamo preso il 14% nel 1993 a Torino alle comunali e io sono stato eletto consigliere comunale, il Pd prese il 9,5%. Questo avvenne perché noi rappresentavamo la continuità con quella storia…Noi oggi questo patrimonio non l’abbiamo più.
Questo tema del progetto, del cosa ci stiamo a fare in questo Paese, del compito storico dei comunisti in questo paese, non lo abbiamo per nulla risolto. La mia opinione è che il livello della discussione che abbiamo oggi – la paura, dobbiamo allearci un po’ di più o un po’ di meno, un po’ più a destra o un po’ più a sinistra – non è per nulla all’altezza di questo problema. Questa è la mia valutazione. Noi non abbiamo nemmeno una valutazione del fenomeno di Grillo – che è il principale fenomeno politico che è avvenuto in queste elezioni – che sia minimamente articolato.
Bisognerà scomporre, decostruire, capire cos’è successo. Così come quando qualcuno dice “c’è uno spazio enorme per la sinistra di alternativa” e fa coincidere i voti di Grillo con lo spazio di alternativa, secondo me è matto. Dentro i voti a Grillo c’è molto voto proletario, molto voto giovanile e molte culture di destra sedimentate in profondità! Adesso però non voglio qui discutere di Grillo, solo sottolineare che dobbiamo affrontare con maggiore serietà e profondità di analisi la situazione in cui operiamo. Occorre un percorso di discussione, di analisi, di re-immersione nella comprensione del Paese perché il livello di elaborazione che abbiamo tra di noi è insufficiente a fare una proposta per un partito comunista oggi.
In questo senso la nostra sconfitta – come diceva Roberta Fantozzi – è maturata nell’ultima parte di campagna elettorale ma rimanda anche ad elementi di fondo. Lo stesso processo della Rifondazione comunista degli anni gloriosi – che io in larga parte condivido anche se è oggetto di giudizi diversi all’interno del partito – è stato il portare dentro Rifondazione comunista tutte le innovazioni culturali che la sinistra socialista prima e la nuova sinistra poi aveva fatto nel corso degli anni ’50, ’60 e ’70. Non di più.
Penso che per rilanciare il partito bisogna che il gruppo dirigente ed il partito si accorga che c’è un deficit di elaborazione. E questo deficit bisogna provare ad affrontarlo. Per questo la mia opinione è che le soluzioni immediate e salvifiche non fanno i conti col problema reale. Le soluzioni a breve mi paiono non all’altezza e non definite politicamente. Ho ascoltato l’accorato appello di Alfio Nicotra a parlare con Claudio Grassi, Claudio ne aveva fatto uno a Chianciano a me e a Nichi per parlarci: evidentemente devo avere un problema, non riesco a parlare. Così come ho sentito dire che le persone sono dei simboli. C’è già qualcuno che ha ridotto nella nostra recente le persone a simboli e tenderei ad evitare. In ogni caso vorrei evitare che invece dei problemi politici discutessimo come se i problemi fossero i rapporti tra le persone. Invece di discutere di politica ci si adagia su una lettura da fotoromanzo in cui ci sono i carrieristi, i poltronai, quelli che si innamorano del ruolo . eviterei di degradare fino a questo punto la discussione.
Tra chi pensa, detta brutalmente, che bisogna proporre la sinistra di alternativa e guardare alla nostra destra, a SEL che ha anche un gruppo parlamentare e chi pensa che bisogna guardare molto alla nostra sinistra, non mi sembra ci sia la stessa posizione politica. Non è che risolviamo contraddizioni di questo tipo dicendo che io e Claudio dobbiamo parlare. Per altro tendiamo a discutere, c’è un riconoscimento reciproco, non mi sembra questo il problema.
A me pare che il partito deve cercare di fare un approfondimento, per fare un congresso in cui le tesi non siano semplicemente il riflesso condizionato delle nostre culture politiche di origine, che sono tutte insufficienti per proporre un progetto politico per un partito comunista oggi in Italia: questo a me sembra il problema. In questo senso non vedo soluzioni salvifiche. In questa discussione la cosa che mi ha più colpito, perché più mi mette in discussione, è stato l’intervento del compagno Limoncino, che ha detto «che cosa state facendo con le dimissioni? State scappando!». Questo è l’intervento a cui io penso che bisogna dare più peso, perché non possiamo assolutamente dare questo segnale. Non possiamo essere un gruppo dirigente che scappa.
Il partito può cambiare gruppo dirigente ma questo va fatto sulla base di una proposta che permetta a quel gruppo dirigente di andare avanti. Non si risolve la situazione cambiando il gruppo dirigente senza aver risolto i problemi politici, perché dopo tre mesi sei di nuovo nel casino. Lo dico perché qualcuno ha evocato le prossime elezioni. Ma secondo voi come le facciamo? Se sono a giugno, c’è qualcuno che ha una soluzione risolutiva? Ramon Mantovani ha proposto uno schema: o c’è un processo democratico “una testa un voto” o si va come partito. E’ uno schema che io condivido, sapendo che non è risolutivo dei nostri problemi se si vota a giugno. Non vi sono soluzioni immediate di un problema di fondo. Per questo occorre fare uno straordinario congresso, un congresso lungo, per permetterci di capire e di avanzare un progetto serio. Non siamo in grado non di risolvere in un attimo, in un momento, i problemi che non abbiamo risolto in qualche anno ma dobbiamo porci l’obiettivo, dopo la tranvata che abbiamo preso, di affrontarli seriamente.
Non c’è più alibi per nessuno, noi non possiamo continuare come prima. C’è da ripensare quasi tutto, forme organizzative comprese. Ad esempio il compagno Guagliardi diceva bisogna ripensare un modello in cui i gruppi dirigenti centrali siano eletti più su base territoriale che non dal congresso: io sono d’accordo, questo è un modo per smontare parzialmente le aree organizzate. A questo criterio affiancherei un correttivo: che però il nazionale mette il becco sui territori più di adesso, perché altrimenti il meccanismo passa da correntizio a feudale e non è una buona cosa. Occorre valorizzare la democrazia dal basso ma anche essere molto più fermi di oggi nell’applicazione della linea politica. Ho fatto quest’esempio solo per dire che la nostra riflessione deve riguardare anche il nostro modo di essere forza organizzata.
Aggiungo una notazione politica, che riguarda l’intervento di Alberto Burgio. Sull’analisi di Alberto ho un punto di differenza: la sconfitta è pesante o totale? Io penso sia pesante ma non penso che sia totale, definitiva. Siamo piegati ma non annichiliti. Non sono in altri termini d’accordo con il fatto che il risultato elettorale sia l’unico criterio attorno a cui si valuta un progetto politico. Penso sia sbagliato e ci impedisce di vedere le cose da correggere e la strada da percorrere. La cosa è un po’ più articolata. A me piacerebbe un partito comunista che valuta le elezioni ma discute anche se una federazione ha fatto i Gap o non li ha fatti, quanti immigrati ha iscritto o non ha iscritto, quanti operai è riuscito ad organizzare o non organizzare.
Così come sul piano elettorale farei notare che Lula è stato bocciato tre volte prima di diventare presidente del Brasile e non so che fine avrebbe fatto Syriza se si doveva stare al risultato delle europee del 2009. Il PCF ha avuto qualche problema nelle Presidenziali e oggi la compagna Buffet è una stimata parlamentare comunista mentre il candidato del Front de Gauche è stato il compagno Mélenchon, che ha scritto uno splendido libro che ha venduto 125mila copie che si chiama: “Se ne vadano tutti”. Il compagno Melenchon era ministro del governo Jospin… Occorre a mio parere essere un po’ più articolati.
Più articolati anche sulla vicenda di Taranto. Non sono per nulla d’accordo con quanto ha detto Imma Barbarossa. Io sono orgoglioso di essere il segretario di un partito comunista in cui il Circolo di Fabbrica dell’Ilva di Taranto ha fatto un volantino contro le lotte fomentate dall’azienda e dai sindacati gialli contro la magistratura. Hanno scritto: “oggi c’è una cosa nuova, noi comunisti non scioperiamo, proprio noi che siamo sempre in testa alle lotte non ci facciamo ricattare dall’azienda contro la magistratura”. Non era facile per i compagni dell’ILVA non scioperare quel giorno e mi chiedo, quante volte nella storia del movimento operaio degli operai son riusciti a fare questo? A dire che non si può stare con il padrone per difendere il posto di lavoro contro l’ambiente? Eppure la posizione dei nostri compagni ha permesso di aiutare una maturazione nella Fiom e di modificare anche la posizione dei lavoratori. Nel giro di 15 giorni a Taranto si è passati dalle lotte a favore del padrone alle lotte contro il padrone, in virtù dell’aver tenuto una linea giusta. Io sono orgoglioso di questi nostri compagni operai e questo modo di discutere un po’ impressionistico a me pare sbagliato ed ingeneroso.
Voglio inoltre sollevare un ultimo problema a chi fa derivare dalla sconfitta elettorale un giudizio catastrofico sulla nostra azione politica. La domanda è, ma secondo voi Rivoluzione civile è stata sconfitta perché aveva un profilo politico troppo simile alla nostra proposta politica o perché ce l’aveva troppo diverso? Io ho l’impressione che il problema è che era troppo diverso. Il problema che abbiamo avuto in campagna elettorale è che tutto il lavoro accumulato in questi anni, il lavoro sociale, sui problemi operai, della scuola, dei giovani, sulla critica dell’economia politica, sul Fiscal compact, è sostanzialmente svanito nella comunicazione. Dico questo ringraziando Ingroia, che ha fatto quello che poteva, generosamente, mettendoci la faccia. Purtroppo la comunicazione che è passata era troppo distante dalle questioni sociali e non ha funzionato. Eviterei quindi di far discendere dal risultato elettorale un giudizio così apocalittico su di noi perché una delle ragioni della sconfitta è proprio che il profilo politico che ha assunto quella lista era troppo distante da quello che proponevamo.
Si poteva fare diversamente nella sostanza? Io non penso. Abbiamo lavorato per correggere, per migliorare, senza rompere, perché non potevamo rompere e io non avevo il mandato per rompere. Dal modo in cui si sono fatte le liste alla gestione della campagna elettorale certo di problemi ce ne sono stati tanti. Ma mi avreste preso per matto se avessi determinato una rottura di quel processo che avevamo ricercato con forza.
In questo senso non è la segreteria, è proprio il segretario che ha la responsabilità di aver accettato quel livello di mediazione perché considerava troppo rischioso arrivare ad una rottura. Quindi questa è totale responsabilità mia e come sempre quando si contratta il punto della definizione è oggetto di discussione. La mia opinione è che non eravamo nelle condizioni di poter fare molto altro, anche quando questo riguardava il sottoscritto. Perché io per l’appunto avrei molto preferito poter dire a Nicoletta Dosio ‘entri tu come terza in lista in Piemonte ed esco io’, avrebbe risolto qualche problema politico. Non potevo però farlo perché non me la sono sentita di violare le decisioni che avevamo assunto. In questo senso la responsabilità delle mediazioni me la carico proprio tutta.
Finisco dicendo che quando proponiamo, quando propongo, il congresso lungo, lo faccio per due ragioni:
la prima è che non abbiamo oggi gli elementi per definire il progetto di cui abbiamo bisogno per uscire dalla situazione in cui siamo; la seconda è che però non possiamo far finta che si possa proseguire così, che si possa proseguire senza un congresso.
Io penso che dobbiamo trovare una via di mezzo, anche perché legittimamente le minoranze chiedono un congresso. Penso che bisogna avere il senso dell’equilibrio, definire un percorso che ci permetta di ragionare a fondo per avanzare una proposta che alla fine deve essere validata dal congresso. Così come il partito ha il diritto di definire in un percorso congressuale i suoi gruppi dirigenti. Non si può dire “subito” ma è anche sbagliato dire “mai”, c’è un problema di discussione ma anche di dare la parola ai compagni cercando di farlo nel modo migliore.
Il fatto di proporre uno “straordinario congresso” non vuol dire che allora rimaniamo in stand-by per mesi a discutere mentre il mondo cambia alla velocità della luce. Nella relazione ho avanzato delle proposte.
In primo luogo occorre rilanciare l’iniziativa politica immediata, dalle manifestazioni No Ponte, No Tav e No Muos. Inoltre va fatta subito una campagna politica intitolata “loro giocano a rimpiattino e il Paese va alla malora”, dove loro sono tutti i gruppi parlamentari. Va fatta una campagna aggressiva su questo. Va fatta per ridare il senso del ruolo di Rifondazione comunista, cioè che cosa ci stanno a fare i comunisti questo lo definisce più che mille altre discussioni. Anche perché si dice: cosa succede se ci sono le elezioni? O si pensa di andare ad attaccare il capello all’attaccapanni di qualcun altro – cosa che sarà presente perché il Pd immagino sarebbe molto meno ruvido nei rapporti a sinistra nella prossima fase – o si rilancia l’iniziativa politica. Io penso che bisogna immediatamente riprendere iniziativa politica su temi sociali che parlino ai quei milioni di persone che hanno votato per cambiare.
In secondo luogo occorre lavorare alla costruzione di una sinistra di alternativa, proponendo lo schema che ha riproposto mantovani nell’intervento: basta con le forme pattizie, occorre costruire un processo di unità basato sul principio “una testa un voto”. Dagli errori bisogna imparare. Quando abbiamo pensato quello Statuto della Federazione della Sinistra noi abbiamo definito una forma pattizia che era quella che ha permesso la costruzione della Federazione. Lo abbiamo fatto anche perché se proponevamo allora il principio “una testa un voto” un po’ di gente diceva «ma allora stai sciogliendo il partito», o mi sbaglio? Adesso abbiamo visto che la forma pattizia non ha funzionato né con la Federazione della Sinistra ne con Rivoluzione Civile e dobbiamo proporre il principio “una testa un voto”, sapendo che non sciogliamo il partito. Questa indicazione la dobbiamo lanciare subito, immediatamente.
In terzo luogo dobbiamo fare la Rifondazione di Rifondazione. Dobbiamo cioè ricostruire le ragioni politiche e le forme organizzative attraverso cui rifondare l’esistenza di Rifondazione Comunista. Io penso che le ragioni della rifondazione di un partito comunista siano non solo integre ma rafforzate: se diciamo che la fase attuale è caratterizzata dall’alternativa socialismo o barbarie, dobbiamo tradurre in termini comprensibili a livello di massa, l’attualità del comunismo, del socialismo. Questo è il punto fondante che motiva l’esistenza di un partito comunista. Quando dico che non vedo oggi le condizioni di un partito di massa non sto dicendo che voglio parlare a 15 persone, sto dicendo che bisogna prendere atto di come siamo concretamente per ripartire, per parlare al paese. In questo rilancio della prospettiva del socialismo del XXI secolo, dell’attualità storica della modifica dei rapporti di produzione, si pone la necessità di un raccordo forte con le esperienza latinoamericane e l’internità al processo della sinistra europea.
Tradotta in italiano: dobbiamo uscire dal ruolo di coloro che denunciano l’arretramento – che è la cosa che stiamo facendo non da un anno, non da sei mesi, ma da qualche anno – senza riuscire a invertire la tendenza. Dobbiamo diventare quelli che sono in grado di indicare una strada di trasformazione qui ed ora, individuando le gambe su cui camminare: questo è il nodo del progetto.
Penso che queste tre cose: iniziativa politica immediata, lancio della sinistra di alternativa e rifondazione del partito a partire dal suo progetto, sono le cose che si possono e si debbono fare subito. Compito difficile ma possibile e soprattutto vitale.
Sintesi della relazione di Paolo Ferrero al Comitato Politico Nazionale del 9/10 marzo 2013
Voglio cominciare questa relazione ringraziando i compagni e le compagne di Rifondazione Comunista per il grande e generoso lavoro fatto in campagna elettorale. Senza il vostro lavoro non ci sarebbe stata la campagna elettorale sui territori ed è il segnale dell’importanza e dell’indispensabilità di questa comunità rappresentata dal Partito della Rifondazione Comunista.
L’insuccesso elettorale ha frustrato questa comunità ma non l’ha cancellata. Volevamo un riconoscimento delle nostre ragioni e non l’abbiamo avuto. E di ragioni ne abbiamo tante perché in questi anni siamo stati in tutti i movimenti e molto lavoro politico è stato fatto. Dobbiamo quindi aprire una discussione a tutto campo per capire cosa dobbiamo cambiare, che coinvolga tutti i compagni e le compagne, perché questa comunità politica rappresenta il principale patrimonio da cui ripartire. La messa a disposizione del proprio mandato da parte della segretaria nazionale ha proprio questo fine: Le elezioni nazionali e regionali hanno segnato la nostra sconfitta, vogliamo aprire un confronto vero, un approfondimento non rituale sui nostri limiti e sui nostri errori. Queste dimissioni non sono e non vogliono essere in nessun modo un segnale di scarico di responsabilità o peggio ancora di fuga. Sarebbe gravissimo per un gruppo dirigente che ha il dovere di non abbandonare la barca nel momento in cui fa acqua: sarebbe irresponsabile.
Uno Straordinario Congresso.
In questo contesto non abbiamo bisogno di una resa dei conti all’interno del gruppo dirigente – che sarebbe un atto distruttivo del partito – ma di aprire una straordinaria fase di discussione che ridefinisca il ruolo dei comunisti nell’attuale fase politica. Il centro della nostra attenzione deve essere la ridefinizione di una proposta politica all’altezza dei problemi, scavando, analizzando, discutendo, in un percorso che riconsegni il destino del partito a tutti gli iscritti e le iscritte. A Rifondazione Comunista serve una proposta politica forte, non una rissa: per questo vi proponiamo di fare non un congresso straordinario ma uno straordinario congresso evitando due scorciatoie:
Da un lato pensare che sia tutto già chiaro e quindi che si debba fare un congresso in fretta e furia pensando che cambiando questo o quel particolare, questo o quel dirigente si possa vincere. Se era tutto già chiaro lo potevamo fare prima e non si capisce perché invece – e parlo della maggioranza – le scelte di fondo le abbiamo fatte sempre con un largo consenso.
La seconda scorciatoia sarebbe quella di analizzare la nostra crisi isolandola dal resto del paese, guardando solo noi e il nostro ombelico. Quando il fascismo ha vinto in Italia il gruppo dirigente comunista non si è accapigliato alla ricerca di capri espiatori ma ha ricominciato a riflettere sui nodi di fondo producendo le Tesi di Lione. Noi non siamo in una situazione così drammatica ma dobbiamo avere la stessa serietà e responsabilità di quella generazione di comunisti e comuniste nel ridefinire i nostri compiti.
La discussione deve quindi essere approfondita. Le elezioni hanno infatti segnato la chiusura di più cicli politici e sociali e noi dobbiamo collocare la nostra sconfitta nel contesto. Per non fare che tre esempi parziali.
In primo luogo stiamo assistendo alla fine del ciclo del movimento operaio e sindacale così come si è costruito dopo la seconda guerra mondiale. Vi è una crisi verticale del sindacato che vede la demolizione del contratto nazionale di lavoro e la de regolazione totale del mercato del lavoro in entrata e in uscita. Il fallimento della concertazione non ha dato luogo ad una nuova linea ma alla ricerca – fallita – del governo amico. Questo ha determinato in un contesto di ignavia delle dirigenze sindacali l’assenza dell’organizzazione del conflitto di classe dal basso in presenza di un violentissimo conflitto di classe agito dall’alto. Questa assenza, che caratterizza negativamente l’Italia rispetto a tutti i paesi europei – ha determinato le caratteristiche del conflitto politico che non ha più alcun riferimento al conflitto di classe. Noi non possiamo più giocare in difesa.
In secondo luogo la fine della Seconda Repubblica e del bipolarismo che vengono sommersi dalle proprie macerie. Il grande successo di Grillo utilizza il senso comune prodotto nella seconda repubblica come arma distruttiva contro il palazzo. Le elezioni non ci forniscono l’uscita dalla seconda repubblica ma la sua crisi organica che è destinata a proseguire: non siamo alla pagina finale di questa vicenda e noi non possiamo più giocare in difesa.
In terzo luogo abbiamo la crisi di Rifondazione Comunista. Noi abbiamo subito una sconfitta e questo non ci permette di andare avanti come prima, rischiando di consumarci un po’ alla volta. Si chiude una fase e se ne apre un’altra. Dobbiamo partire dalla crisi del progetto politico di rifondazione comunista per ridefinirlo. Neanche qui possiamo più giocare in difesa. Dobbiamo ridefinire il senso della proposta comunista oggi sia nelle forme organizzative che nei contenuti. Vogliamo certo diventare un partito comunista di massa ma oggi non lo siamo e non possiamo diventarlo a breve. Sbagliato continuare a far finta di esserlo in sedicesimo, dobbiamo fare una rifondazione della rifondazione comunista.
Questo è il tempo della riflessione sulla sconfitta, sulle sue ragioni e sulle strade attraverso cui uscirne. Un tempo della riflessione che non può essere brevissimo perché oggi non abbiamo a disposizione gli elementi per produrre una nuova politica: occorre studiare ed evitare di ripetere le cose che già sappiamo, che già abbiamo sperimentato e che già non hanno funzionato.
Dobbiamo aprire il tempo della riflessione per poter riaprire il tempo dell’azione, per dar vita ad un progetto all’altezza al livello dello scontro che vedo oggi l’alternativa tra socialismo o barbarie. La barbarie non è una evocazione retorica, l’abbiamo vista nei morti di Perugia nelle sue forme più crude e disperanti. Il nostro compito è quello di partire dalla nostra delusione e della nostra passione per aprire una riflessione che ci permetta di dar vita ad una azione efficace.
Per cominciare la riflessione.
Dobbiamo innanzitutto cominciare la riflessione a partire dall’analisi approfondita dei risultati elettorali.
Com’è evidente le elezioni ci consegnano un quadro politico terremotato rispetto alla situazione precedente e con enormi difficoltà a dar vita ad un governo stabile. Ho citato molte volte Weimar per descrivere la situazione italiana, questo riferimento è tanto più corretto oggi. Oltre al bipolarismo è la Seconda Repubblica che è crollata in questa tornata elettorale. A partire da questo dato vorrei sottolineare due elementi. In primo luogo il voto è stato contro il sistema politico, per certi versi contro l’Europa e contro l’austerità. In particolare va sottolineato come l’assenza di un conflitto di classe generale – con una enorme responsabilità del sindacato – ha consegnato appieno il disagio sociale al tema della lotta al sistema politico e ai privilegi della “casta”. Così nelle elezioni ha vinto Grillo che ha rappresentato in pieno queste istanze, ha perso meno di quanto previsto Berlusconi, mentre è stato punito chi ha rappresentato le politiche dell’austerità (Monti) e chi più di tutti si è fatto carico nell’anno scorso della stabilità del quadro politico per realizzare quelle politiche (PD). Il terremoto non è quindi “neutro” ma sia pure in forme confuse esprime un disagio profondo verso le politiche di austerità.
La seconda considerazione è che non dobbiamo scambiare questo terremoto con una rivoluzione. Non ci troviamo davanti all’apertura di una nuova fase ma all’esplicitarsi e all’aggravarsi della crisi organica della seconda repubblica e delle politiche neoliberiste. Dalle elezioni non emerge una alternativa ma l’amplificazione della crisi organica del sistema, politico in primo luogo.
In questa situazione è difficile fare previsioni ma a me pare che tre sono le possibilità che si aprono.
La prima, che io auspicherei, è quella di un positivo dialogo tra PD e Grillo. La auspicherei perché sarebbe una risposta alla domanda sociale emersa nelle elezioni, sarebbe la rottura dell’impermeabilità del quadro politico alle istanze sociali. Questo aprirebbe in modi certo contraddittori una possibilità di uscire positivamente dalla crisi della seconda repubblica.
La seconda è che a fronte dell’ingovernabilità – e magari sotto la pressione dei famosi “mercati internazionali” – si costituisca un governo di emergenza che fa le riforme istituzionali – o firma il memorandum con la BCE – per rendere governabile “a forza” un paese ingovernabile in forme democratiche. Sarebbe un ulteriore salto di qualità di forzatura dei poteri forti, in piena continuità politica con il governo Monti.
La terza è che si torni immediatamente alle elezioni, non necessariamente per scelta ma magari per un incidente di percorso. In questo quadro sono poi possibile molte variabili, come ad esempio il tentativo da parte della lega Nord, di utilizzare il governo delle regioni del nord per praticare uno scasso istituzionale, ami come oggi all’ordine del giorno.
Non faccio previsioni – che dubito siano fattibili – e mi limito a richiamare un ultimo elemento. All’interno delle elezioni occorre analizzare a fondo il grande successo di Grillo, che segnala tendenze di fondo della società italiana. Dobbiamo rifuggire da semplificazioni analitiche che non ci servono a nulla se non a metterci in pace la coscienza. Grillo fa leva sul senso comune di massa così come è stato prodotto da un ventennio berlusconiano e lo contrappone al sistema politico. Nella contrapposizione tra popolo e “partiti” vi è la cifra politica del successo di Grillo: sufficiente a scardinare un sistema in crisi, non a ricostruire una nuova realtà. Per questo credo che Grillo rappresenti un punto di passaggio della crisi più che il suo esito definitivo. Da questo punto di vista Grillo è indubbiamente un effetto – non neutro ma un effetto – piuttosto che una causa della deflagrazione del sistema o una soluzione alla stessa. Il punto non è la demonizzazione di Grillo ma la comprensione della ragione del suo successo al fine di riformulare in modo efficace la nostra proposta politica di alternativa al neoliberismo e al capitalismo.
La sconfitta di Rivoluzione Civile
In questo contesto abbiamo il pesante insuccesso della lista Rivoluzione Civile.
In primo luogo è evidente che il modo in cui siamo riusciti a dar vita a Rivoluzione Civile è stato piuttosto abborracciato. Una parte delle forze che hanno dato vita a RC lo hanno fatto per necessità più che per convinzione e data la scarsità di tempi non vi è stato alcun percorso democratico nella costruzione delle liste. Questo ha pesato moltissimo sacrificando territori, rappresentanza di genere e presenza dei movimenti. Il tutto è risultato piuttosto contraddittorio con assenze – penso a Nicoletta Dosio e Vittorio Agnoletto – che hanno pesato moltissimo.
In secondo luogo penso però che le elezioni le abbiamo perse in campagna elettorale. La lista aveva una potenzialità di voto ben maggiore del 2% e tutti coloro che hanno fatto campagna elettorale lo hanno toccato con mano. Nella chiarezza che il superamento della soglia da parte di Rivoluzione Civile non avrebbe magicamente risolto tutti i problemi, voglio però chiarire che si poteva fare meglio. Per non citare che due problemi, la scarsa presenza dei temi sociali nel profilo complessivo della lista ed un continuo tentennamento nei confronti del PD che non ha permesso la definizione di una identità forte della lista. I limiti di impostazione e gestione della campagna elettorale hanno pesato molto: Chi votava PD votava per il meno peggio, chi votava Grillo votava per bastonare il palazzo, non siamo riusciti a comunicare chiaramente a cosa serviva il voto a Rivoluzione Civile. Io penso cioè che il risultato elettorale negativo non era iscritto nella presentazione della lista Rivoluzione Civile – pur con tutti i suoi limiti – ma sia stato il frutto di una incapacità di dare il senso compiuto di alternativa che pure nel programma di Rivoluzione Civile era assai ben espresso. Questo è a mio parere il punto politico centrale su cui occorre riflettere e scavare: la capacità di dotarsi di una cultura e di una proposta politica in grado di reggere a livello di massa il nodo dell’utilità di una sinistra antiliberista nel nostro paese.
Questo insuccesso non mette in discussione a mio parere l’indirizzo politico di fondo. Credo che sia stato giusto perseguire l’obiettivo di una lista di sinistra autonoma dal centro sinistra. Penso che abbiamo fatto bene a posizionarci duramente contro il governo Monti, a dar vita alla manifestazione del 12 maggio contro il governo Monti ed a operare affinché la FdS diventasse il punto di coagulo di una alternativa di sinistra. Purtroppo dopo la manifestazione del 12 maggio la scelta degli altri soggetti della Federazione della Sinistra di inseguire il PD, hanno pesantemente indebolito questa prospettiva. Nonostante questo abbiamo continuato a cercare un percorso unitario a sinistra con la manifestazione No Monti day del 27 ottobre sia con Cambiare si può che da ultimo con Ingroia. Nella discussione che dobbiamo aprire dobbiamo dirci chiaramente se confermiamo o meno l’obiettivo che abbiamo perseguito in questi anni e mesi. La mia posizione è SI, noi dobbiamo lavorare per una sinistra antiliberista dotata di un proprio progetto politico autonomo dal centro sinistra.
Che fare.
In questo contesto destabilizzato, in una situazione molto aperta, dobbiamo mettere alcuni punti fermi.
Innanzitutto, se l’alternativa che abbiamo davanti è tra socialismo o barbarie, ritengo necessario ribadire la necessità in Italia di un partito comunista all’interno di una efficace sinistra antiliberista. Non si tratta di una discussione burocratica ma piuttosto di ragionare sui nodi fondanti il senso della nostra militanza comunista qui ed ora. Lo dobbiamo fare tenendo d’occhio le scadenze politiche ravvicinate ma soprattutto aprendo un dibattito di fondo che abbia al centro due elementi.
In primo luogo che il patrimonio di militanza, di idee, di cultura politica e di linea politica costituito da Rifondazione comunista è decisivo ed indispensabile. Rifondazione Comunista, deve innovare profondamente le modalità di funzionamento e di organizzazione, ma rappresenta oggi – pur nelle difficoltà – la principale risorsa per la costruzione di un polo della sinistra di alternativa in Italia. Non dobbiamo disperdere questo patrimonio fondamentale. Dobbiamo quindi avere grande cura del partito e questa cura deve essere finalizzata ad una ridefinizione piena del senso del partito della rifondazione comunista oggi. In questi anni abbiamo fatto alcune innovazioni culturali ma sostanzialmente abbiamo proseguito in sedicesimo con il partito che avevamo prima. Abbiamo detto che volevamo fare il partito di massa e non lo siamo mai stati. Dobbiamo partire da una analisi impietosa dei nostri limiti per ricostruire un partito militante in grado di costruire e connettere le lotte, fare battaglia culturale, raccontarsi invece di venir raccontato. Dobbiamo costruire sul serio un partito sociale, in grado di ridefinire il senso e l’utilità della militanza comunista, consapevole della propria identità senza essere settario.
In secondo luogo la necessità di riprogettare in modo unitario ed innovativo un percorso fondativo della sinistra antiliberista che raccolga tutti coloro che sono disponibili a questa prospettiva, a partire da coloro che la condividono all’interno di Rivoluzione Civile. Si tratta di dar vita ad un processo democratico e partecipato che superi i limiti pattizi che hanno caratterizzato tanto la federazione della Sinistra che Rivoluzione Civile. Occorre proporre un percorso di aggregazione basato sul principio di “una testa un voto”. Un percorso paritario e partecipato con cui dar forma ad un processo di fondazione di una soggettività politica della sinistra di alternativa.
Per fare questo abbiamo bisogno di un grande percorso di analisi, discussione ed elaborazione. Abbiamo bisogno di uno “straordinario congresso”. Non ci serve un congresso straordinario che litiga sui gruppi dirigenti senza fare un passo in avanti sull’elaborazione politica. Sarebbe una scelta sciagurata che rischia di dissolvere il partito. Abbiamo bisogno di uno straordinario congresso che abbia tempi e modi di svolgimento in grado di rispondere ai problemi che abbiamo dinnanzi.
In primo luogo occorre cominciare subito un percorso di coinvolgimento del partito e di ascolto del partito cominciando dagli attivi di circolo e di tutte le federazioni. Dobbiamo aprire un percorso di discussione collettiva che dia la parola ai compagni e alle compagne in un percorso di ricostruzione della soggettività del partito, fino ad arrivare ad una assemblea nazionale dei segretari di circolo. A tal fine è utile prevedere riunioni periodiche dei segretari regionali e delle grandi federazioni.
In secondo luogo dobbiamo far partire immediatamente un percorso di discussione sui principali nodi politici aperti davanti a noi. Per citarne alcuni: Affinare le nostre proposte sulla crisi economica , con particolare riguardo all’Europa. Una analisi approfondita della realtà sociale del paese e della composizione di classe nelle sue determinazioni specifiche. Una analisi approfondita del fenomeno grillino. Una riflessione sulla crisi della seconda repubblica e sulla modifica del rapporto tra aggregazioni sociali e rappresentanza. Un approfondimento del tema della comunicazione come punto strategico nella società dello spettacolo in cui è vero solo cosa appare. Una analisi delle diverse esperienze di unità della sinistra a partire dall’Europa e dall’America latina. Una discussione su come si forma la soggettività in un contesto di atomizzazione sociale crescente. Ho citato alcuni temi per dare il senso della qualità della riflessione che dobbiamo fare al fine di dotarci degli elementi fondamentali per poter elaborare una proposta politica che ci faccia uscire dalle secche.
In terzo luogo, occorre arrivare entro la fine dell’anno a tenere il congresso vero e proprio e tutta l’attività di elaborazione deve convergere nella costruzione partecipata della nostra proposta politica. Per questo proponiamo che già oggi si definisca di tenere il congresso entro la fine dell’anno. Propongo di eleggere subito la commissione politica con il compito di costruire gli incontri di approfondimento di cui abbiamo parlato e far confluire questa elaborazione partecipata dentro la costruzione dei materiali congressuali.
A tal fine propongo che questo CPN
Definisca il congresso e nomini la commissione politica.
Individui i punti di approfondimento su cui lavorare sia all’interno che all’esterno del partito.
Definire il coordinamento periodico dei segretari regionali e di grandi federazioni.
Dare mandato alla segreteria nazionale di rimane in carica per garantire il proseguimento dell’iniziativa politica del partito e della gestione amministrativa fino al congresso.
Decidere la nostra partecipazione alle manifestazioni delle prossime settimane a partire dal No ponte, No tav e No muos.
Definire una proposta politica di iniziativa politica di denuncia dei giochi politici che caratterizzano l’attuale parlamento mentre il paese va alla malora.
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