Imperialismo, In Evidenza

Manifestiamo in solidarietà ai curdi!

paceSIRIA: FERRERO, ITALIA SMETTA DI FARE PESCE IN BARILE =
Roma, 8 ott. (AdnKronos) – La manifestazione dei curdi per la difesa di Kobane si sta ora spostando da piazza del Colosseo verso il Circo Massimo. Circa 200 i partecipanti al corteo tra curdi e gente comune che sposa la causa. Tra loro anche alcuni rappresentati di Sinistra Ecologia e Libertà e il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero, che ha sottolineato come “bisogna garantire al popolo curdo una condizione di civiltà e di dignità”. “Siamo qui per manifestare la nostra solidarietà e per prenderci l’impegno per organizzare nei prossimi giorni assemblee in tutta Italia per denunciare questa situazione – prosegue – Chiediamo che il governo italiano la smetta di fare il pesce in barile e intervenga a livello europeo e la smetta con questa situazione di ambiguità”.

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http://www.retekurdistan.it/2014/10/08/7591/

Appello urgente: Una Coalizione popolare internazionale contro l’ISIS – per Kobanê – e per l’umanità!

Redazione 8 ottobre 2014


 

Salviamo le speranze democratiche del popolo di Kobane!

Aiutiamo la resistenza del popolo curdo!

L’Europa democratica si mobilita al fianco della resistenza di Kobane alle bande di IS. La Rete Italiana di solidarietà con il popolo kurdo si fa portavoce della richiesta dei kurdi in Europa, che chiedono una coalizione internazionale popolare, diffondendo il seguente testo e chiedendo a tutte le organizzazioni della società civile di sottoscriverlo, inviando una mail a :

sottoscrizioneappellorojava@gmail.com

Appello urgente Una Coalizione popolare internazionale contro l’ISIS – per Kobanê – e per l’umanità!

Dal 15 settembre 2014 l’ISIS ha lanciato una grande campagna militare su più fronti contro la regione curda di Kobanê (in arabo: Ayn Al-Arab) in Rojava/nord della Siria. Questo è il terzo assalto di ISIS contro Kobanê dal marzo 2014. Visto che ISIS non ha avuto successo nelle due precedenti occasioni, sta ora attaccando con più forze e vuole conquistare Kobanê.

Nel gennaio di quest’anno, i kurdi della regione di Rojava hanno istituito amministrazioni locali sotto forma di tre cantoni. Uno dei tre cantoni è Kobanê. A nord di Kobanê vi è il confine con la Turchia, e tutti gli altri lati sono circondati da territori controllati da ISIS. Questi ultimi si sono avvicinati ai confini di Kobanê, utilizzando armi pesanti di fabbricazione USA. Centinaia di migliaia di civili sono minacciati dal genocidio più brutale della storia moderna. La gente di Kobanê sta cercando di resistere con armi leggere contro gli attacchi più brutali dei terroristi di ISIS, con il solo aiuto delle Unità di Difesa del Popolo del Kurdistan occidentale, le YPG e YPJ, ma senza alcun aiuto internazionale.

Per questo una Coalizione popolare internazionale contro l’ISIS – per Kobanê – e per l’umanità! è di vitale importanza. ISIS ha sostenitori potenti e ricchi

Gli attacchi a Kobanê fanno parte di un piano generale volto all’annientamento del potere politico dei curdi in Rojava, nord della Siria. Le bande di ISIS sono state sostenute in questo dai militari turchi, sia logisticamente sia politicamente. Il piano ultimo della Turchia è “l’occupazione del Rojava Kurdistan”, esercitando pressione internazionale per creare una zona cuscinetto nella regione. La pre-condizione per la creazione di una zona zona cuscinetto/no-fly zone, è svuotare Kobanê dalle persone. E distruggere l’auto-governo istituito dai curdi nel corso degli ultimi due anni.

La cosiddetta coalizione internazionale per combattere l’ISIS, istituita a seguito di un vertice Nato nel Galles lo scorso 4 e 5 settembre, non è intervenuta, nonostante sia possibile osservare l’imminente genocidio ai danni di Kobanê. Non stanno lanciando attacchi aerei nei luoghi sotto attacco da parte di ISIS intorno alla regione di Kobanê. Questo approccio delle potenze internazionali sta lasciando centinaia di migliaia di civili curdi in balia di ISIS e dell’imminente genocidio.

Alcuni dei paesi della coalizione sono tra i sostenitori finanziari e militari dei terroristi di ISIS in Iraq e Siria. Arabia Saudita, Qatar, e in particolare il governo turco, sono in parte responsabili per aver lasciato che i terroristi di ISIS acquisissero potere. L’ISIS, indisturbato, è stato in grado di accumulare le risorse finanziarie necessarie – ed è riuscito a reclutare sempre più jihadisti provenienti da tutto il mondo.

Per questo una Coalizione popolare internazionale contro l’ISIS – per Kobanê – e per l’umanità! è di vitale importanza. Il contesto e la verità

L’istituzione dell’autonomia democratica in Rojava è la risposta curda al caos e alle crisi in corso in Medio Oriente, in particolare in Siria. L’esperimento del Rojava si basa sulla democrazia popolare. Oltre ai curdi, questa iniziativa include tutte le altre persone, anche arabi, assiri, armeni e turkmeni. Tra questi gruppi vi sono diverse fedi, tra cui musulmani, cristiani, yezidi e aleviti. Si tratta di un modello che pratica l’unità nella diversità.

Per questo motivo, nessuna grande potenza regionale o globale vuole vedere un’iniziativa come quella del Rojava, caratterizzata da conquiste laiche, non settarie, democratiche, avere successo all’interno della Siria o in qualsiasi altra parte della regione. Si tratta di una rivoluzione democratica, fondamentalmente più impegnativa di quanto non lo sia mai stata la primavera araba. La stessa politica non settaria è una sfida per i poteri che preferiscono mantenere l’ordine fomentando e aggravando le divisioni settarie. L’ISIS ha molto in comune con i capi di stato attuali; il suo settarismo è semplicemente una versione estrema della politica di tutti i giorni in gran parte del Medio Oriente.

L’obiettivo

La Turchia e gli attori globali stanno colpendo i curdi per mezzo dell’ISIS, al fine di rimuovere lo statuto di autonomia democratica acquisita dalla lotta del popolo curdo, e in questo modo cercano di diventare influenti nel plasmare la politica della Siria e del Medio Oriente. L’obiettivo principale degli attacchi di ISIS è quello di distruggere il sistema alternativo di autonomia democratica che si è creato in Rojava. Se il mondo vuole la democrazia in Medio Oriente, dovrebbe riconoscere l’autonomia democratica in Rojava: questa promette un futuro libero per tutti i popoli in Siria. A questo proposito, “l’esperimento Rojava” – che esiste ormai dal luglio 2012 – è uno sviluppo assolutamente cruciale.

Agire ora!

E’ giunto il tempo quindi di dare la Turchia e a questi attori globali ragione di credere il contrario. Fai parte della Coalizione Popolare Internazionale contro ISIS – per Kobanê – e per l’umanità! Agisci ora!

Andiamo a Kobanê e prendiamo parte alla resistenza dell’umanità.    

3 Comments

  1. Gianni Sartori

    Mentre la Turchia, cane da guardia dell’imperialismo statunitense, attende che gli integralisti completino il loro sporco lavoro di genocidio nei confronti dei curdi (per poi magari “mettere in sicurezza” le aree curde in territorio siriano) anche i borghesi nostrani sembrano essersi accorti dei Curdi. Ed emerge con forza quale sia il ruolo delle donne sia nella lotta di liberazione che nell’autorganizzazione della società curda.
    Invio questo contributo, in parte datato, ma forse ancora utile.
    Onore al PKK, libertà per Ocalan!
    GS

    DONNE CURDE
    di Gianni Sartori – 29/03/2014

    La difficile situazione del popolo curdo, una “nazione senza stato” sottoposta a feroce repressione (soprattutto in Turchia, ma non solo), rischia periodicamente di venire oscurata dai drammatici eventi mediorientali. In particolare non sempre viene adeguatamente riconosciuto il fondamentale ruolo ricoperto dalle donne nei movimenti di liberazione curdi. Inizialmente, a causa di una atavica subalternità che per secoli ha seminato paura nelle donne curde, non veniva presa in considerazione la loro possibilità di integrarsi nella guerriglia, combattere sulle montagne. Ma in seguito le cose erano cambiate. “Al nostro interno, mi riferisco al PKK ed alle organizzazioni collegate, non ci sono discriminazioni – ci spiegava ancora nel 1996 Ahmet Yaman, all’epoca portavoce dell’Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan (Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan)- e lottiamo anche perché questo tipo di mentalità diventi patrimonio comune di tutto il nostro popolo. Pensa solo ai cambiamenti che si vedevano già dopo tre-quattro anni di lotta armata, grazie anche alla grande determinazione delle donne. Sempre più spesso i genitori lasciano che le loro figlie vadano a combattere, quando fino a poco tempo fa non sarebbe stato permesso loro neanche di uscire di casa! Ora (1996 nda) ci sono più di 5mila guerrigliere sulle montagne”. Sempre negli anni ’90, era sorta un’organizzazione che operava sia in Turchia che in Europa, il “Movimento Indipendente delle Donne Curde”. Nel momento di maggiore espansione contava circa 10mila militanti. Oltre che per difendere l’identità e i diritti negati del popolo curdo, si batteva per “un ruolo di primo piano della donna nella società”.
 Nello stesso periodo venne creata una divisione dell’esercito guerrigliero esclusivamente femminile. Un modo esplicito per rompere con le strutture di stampo feudale e con la mentalità che vedeva le donne subordinate. Stando alle testimonianze rese successivamente da un gran numero di militanti, le donne partecipavano a tutte le decisioni e sicuramente il loro impegno è stato fondamentale per portare avanti la causa curda.

    Va collocata in questo contesto di forte presenza delle donne nella resistenza, la drammatica azione di protesta di due militanti curde (Beriwan e Ronaxi) che si erano date fuoco a Mannheim, in Germania, per protestare contro il governo tedesco che aveva messo fuorilegge il PKK e l’ERNK.


    Il 30 giugno 1996, Zeynep Kinaci, una guerrigliera ventiquattrenne dell’ARGK, si gettò su una parata militare nella città di Tunceli (Dersim) facendo esplodere una bomba nascosta sotto i vestiti e uccidendo nove soldati turchi. Per spiegare il suo gesto estremo lasciava alcune lettere, una delle quali indirizzata al presidente del PKK, Abdullah Ocalan.
 Qualche mese dopo, il 25 ottobre 1996, Leyla Kaplan, una ragazza curda di 17 anni, nascondendo una bomba in modo da sembrare incinta, ha ucciso quattro poliziotti in un attacco suicida alla stazione di polizia della città di Adana per protestare contro le atrocità commesse dall’esercito turco. Eventi estremi, sicuramente, non sempre comprensibili. Ma non si può giudicare tanta disperata determinazione senza tener conto di quale sia stata per molte donne curde l’esperienza del carcere, della tortura e degli stupri subiti dagli aguzzini in divisa della polizia e dell’esercito turchi. Arrestata perché cantava in curdo, Hevi Dilara (questo il suo nome curdo, ma sui documenti risultava come “Bengin Aksun”, dato che i nomi dei curdi venivano forzatamente turchizzati) venne ripetutamente torturata. “Mi portavano davanti a mio padre svestito, con gli occhi bendati -ha raccontato – torturavano me e minacciavano di uccidere mio padre; poi torturavano lui davanti ai miei occhi e dicevano che dovevamo pentirci perché avevamo cantato in curdo. Poi, viceversa, svestivano me, bendavano i miei occhi quando c’era mio padre davanti a me, mi torturavano con il manganello facendo delle cose molto brutte, delle cose che non si possono nemmeno raccontare…Soprattutto quando mio padre era davanti a me, mi torturavano con getti d’acqua intensa o corrente elettrica alle dita e alle parti intime del corpo: tutto questo è durato quindici giorni…”.

    Allo scopo di far conoscere, almeno parzialmente, quale sia stato e sia il ruolo delle donne curde nella lotta di liberazione ripropongo due mie interviste (risalenti rispettivamente al 2007 e al 2008, ma la situazione non sembra sostanzialmente cambiata) a Hevi Dilara e Leyla Zana.

    INTERVISTA A HEVI DILARA, esponente di Uiki (4 novembre 2007)

    Hevi Dilara, rifugiata politica curda ed esponente di Uiki (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), è nata a Urfa. Da circa dieci anni vive in Italia. In passato è stata detenuta nelle prigioni turche, subendo la tortura per la sua militanza.

    Rimane alta la preoccupazione per quanto sta avvenendo (novembre 2007 nda) alle frontiere fra Turchia e Iraq nell’eventualità di altre operazioni militari contro le basi del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Ci si occupa meno, invece, delle ragioni del popolo curdo e di quello che continua a subire.
    Da trent’anni ormai c’è una lotta di liberazione da parte del popolo curdo, che è stato costretto a prendere le armi per difendere i suoi diritti. Dal 1993 in poi, il PKK ha offerto varie tregue unilaterali per una soluzione politica, chiedendo il riconoscimento della propria identità e di poter partecipare a un processo di democratizzazione della Turchia. In particolare, ha chiesto di applicare nella zona curda una forma di autonomia analoga a quella dell’Alto Adige in Italia o dei Paesi Baschi in Spagna. I turchi sembrano non voler riconoscere l’identità curda, sia culturalmente che fisicamente, quindi non riconoscono nemmeno il movimento curdo.

    Il PKK era nato come movimento studentesco nonviolento. Un insieme di cause (la repressione, le impiccagioni, le torture subite dai militanti…) lo ha poi portato alla scelta armata (da segnalare l’analogia con quanto avvenne in Sudafrica nell’ANC nel 1960, dopo la strage di Sharpeville nda). Sicuramente ha influito anche il fatto che il Kurdistan è rimasto un’area sottosviluppata. E’ un territorio ricco di risorse, però la popolazione è molto povera. Come popolo abbiamo ben conosciuto lo sciovinismo turco che vorrebbe annientare la nostra identità. Da bambina non potevo parlare la mia lingua in pubblico, a scuola…

    Perfino la musica curda era proibita. Sono stata arrestata anche per aver cantato nella mia lingua. Lo Stato turco ha praticato l’assimilazione nei confronti delle diverse etnie (assiri, armeni…) e la discriminazione religiosa. Esiste, per esempio, una piccola percentuale di curdi che sono rimasti zoroastriani, ma non possono manifestarlo. La necessità di difenderci ha portato alla nascita del PKK, ma sempre con l’idea di lasciare le armi, di trovare una soluzione politica per il conflitto. Inoltre il PKK condanna le azioni contro i civili, com’è scritto anche nel suo statuto.

    Come ha risposto lo Stato turco alle proposte di tregua?
    La risposta di Ankara è sempre stato “no”. Di fronte ai numerosi “cessate il fuoco” del PKK, la Turchia ha reagito con altre operazioni militari. Dal 1993 a oggi sono entrati in Iraq ventiquattro volte (questa è la venticinquesima) e sempre sono stati respinti dai guerriglieri. Nell’ottobre 2006 c’è stato un importante “cessate il fuoco”. La risposta turca è venuta con le bombe dei servizi segreti e con la “guerra sporca”. Sono state colpite famiglie curde e sono rimasti uccisi anche alcuni bambini. Inoltre vi sono stati nuovi casi di desaparecidos. In quella circostanza alcuni militari turchi di alto grado hanno affermato pubblicamente “la vita di un soldato turco vale quella di dieci curdi”. Da parte sua il PKK ha dichiarato che è legittimo difendersi.

    Quindi la presenza dell’esercito turco in Iraq non è una novità.
    In Iraq i militari turchi c’erano già. Anche prima della mozione votata il 17 ottobre 2007 in Parlamento, in varie occasioni avevano bombardato i villaggi curdi dell’Iraq. Ma il loro obiettivo non è soltanto il PKK. Dietro questa ennesima operazione si può vedere una costante della politica di Ankara, l’idea di una “Grande Turchia” fino a Kirkuk. Inoltre, la Turchia si è resa conto che la zona curda irachena sta diventando veramente autonoma, con un proprio esercito, l’università curda, le risorse autogestite dai curdi…E questo naturalmente potrebbe contagiare anche i curdi dei territori sotto l’amministrazione turca.

    D. Significa che la creazione nel Nord dell’Iraq di un’area autonoma rappresenta una possibilità anche per i curdi di Turchia, Siria e Iran?

    E’ sicuramente una cosa molto positiva. La nostra terra è attualmente divisa in quattro parti e tutti i curdi hanno subito violenza dai vari stati. Coloro che hanno potuto visitare la zona autonoma del Nord dell’Iraq hanno detto: “Adesso almeno una parte della nostra terra è libera”. Soprattutto ha favorito la solidarietà tra curdi, ha permesso il superamento di vecchie ostilità per esempio tra il PKK, il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) di Talabani e il PDK (Partito democratico curdo) di Barzani.

    D. Quali sono le conseguenze delle operazioni militari turche contro i villaggi curdi? Dietro questo accanimento ci sono anche ragioni di interesse economico?

    I villaggi curdi distrutti in Turchia sono stati circa quattromila. Attualmente i “profughi interni” sono cinque milioni. Alcuni sono fuggiti in Iraq, altri in Europa. Quanto alle ragioni di interesse economico, è evidente che la Turchia vuole poter gestire le risorse del Kurdistan. Oltre al petrolio, ricordo che qui nascono due fiumi molto importanti, il Tigri e l’Eufrate. La Turchia sta utilizzando sia economicamente che politicamente tali risorse, indispensabili per conservare un ruolo strategico nella regione. Questo spiega le alleanze con altri paesi come la Siria e l’Iran, dove vivono popolazioni curde. Prima della mozione che autorizzava l’intervento militare in Iraq, iraniani e turchi avevano firmato accordi per attacchi congiunti alle basi del PKK. Il giorno prima del voto del Parlamento turco, il capo del governo siriano, Assad, si trovava in Turchia e aveva dato la sua disponibilità alla lotta comune contro i curdi . Poi, tornato a Damasco, ha smentito. La Siria collabora con la Turchia fin da quando ha scacciato Ocalan. Lo fa soprattutto per paura di perdere i rifornimenti di acqua controllati da Ankara (ovviamente si parla del 2007; attualmente i rapporti tra Ankara e Damasco sono di ben altro tenore nda).

    D. L’opinione pubblica in Turchia ha reagito molto duramente contro il PKK per il rapimento da parte della guerriglia curda di otto soldati turchi dopo l’attacco al ponte di Hakkari in cui ne erano morti altri diciassette. Un suo commento…

    In un primo tempo, l’esercito turco aveva negato che ci fossero prigionieri. Aveva parlato di “guerra psicologica” della guerriglia. Successivamente aveva insinuato che forse i soldati si erano consegnati spontaneamente, disertando, e avevano cominciato a chiamarli “traditori”. Poi la televisione curda ha trasmesso le immagini che confermavano i comunicati del PKK. Ricordo che questi avvenimenti sono accaduti nel corso di un’operazione dell’esercito. In una operazione analoga di poco tempo fa sono stati usati anche i gas e undici guerriglieri sono rimasti uccisi. I familiari non hanno ancora potuto riavere le salme per impedire che vengano riconosciuti gli effetti dei gas. Chi ha visto i cadaveri ha detto che apparivano come bruciati. La reazione in Turchia ai fatti di Hakkari è stata una manifestazione di sciovinismo. Tutta la stampa e molti scrittori hanno attaccato indistintamente i curdi. Sono stati assaliti sedi, ristoranti, librerie…In questo momento molti curdi non osano uscire di casa; dovunque sentono dire continuamente che “bisogna bombardare i curdi”. Lo Stato turco ha saputo alimentare lo sciovinismo (una “mobilitazione reazionaria delle masse” da manuale nda) e siamo di fronte al rischio di uno scontro tra le due popolazioni, non solo in Kurdistan. Infatti, tantissimi curdi, generalmente profughi, vivono a Istanbul, ad Ankara. Proprio a Istanbul recentemente il Comune ha fatto scacciare i curdi di una baraccopoli, abbattendo le loro povere case perché “imbruttivano la città”. La maggior parte dei profughi sono poverissimi e, in quanto curdi, hanno molte difficoltà a trovare lavoro.

    D. Scioperi della fame contro le celle “F”, rivolte dei prigionieri, esecuzioni extragiudiziali e tortura. Sicuramente la situazione dei diritti umani in Turchia suscita parecchie preoccupazioni. Da questo punto di vista, come giudica l’eventuale ingresso della Turchia in Europa?

    Ritengo che l’entrata della Turchia in Europa non sia un fatto negativo, ma bisognerebbe capire “quale Turchia”. Sicuramente non la Turchia che viola i diritti umani di un terzo della sua popolazione, i curdi. In questi ultimi tempi ci sono stati tentativi di adeguarsi alle richieste europee di una maggiore democratizzazione. I turchi hanno liberato Leyla Zana, sospeso la pena di morte, concesso una mezzora giornaliera di trasmissioni televisive in lingua curda. Tuttavia chi parla curdo dal palco (in occasione di comizi, concerto ecc.) o si richiama alle tradizioni curde, viene censurato. Non si può parlare curdo negli uffici pubblici. Addirittura gli anziani, che parlano solo la loro lingua, non possono portare un interprete. Tra il 2004 e il 2005 erano stati rilasciati anche molti prigionieri politici, passando da 12mila a circa 5mila. Ma da un anno a questa parte sono di nuovo aumentati, almeno 10mila. Gli ultimi arresti sono il risultato delle azioni della polizia contro insegnanti, giornalisti e militanti del “Partito democratico della società”. Questo partito è presente in Parlamento con ventidue deputati, gli unici che abbiano votato contro l’invasione dell’Iraq. La maggior parte dei prigionieri curdi è appunto rinchiusa nelle famigerate celle “F” in totale isolamento, senza poter mai uscire, nemmeno per la prevista ora giornaliera, senza radio, senza poter telefonare. Rimane poi molto grave, anche dal punto di vista della salute, la situazione del presidente Ocalan. Contro questo stato di cose anche recentemente ci sono state proteste e scioperi della fame. Anche Leyla Zana è nuovamente sotto processo per aver difeso l’identità curda. Lo stesso sta accadendo a molti sindaci di località curde. Recentemente il sindaco di Diyarbakir è stato condannato a sei mesi per un saluto in curdo. Una Turchia così diventerebbe un problema per l’Unione europea. Forse alla fine prevarranno soltanto gli interessi economici, ma sarebbe un peccato che i Paesi europei, fondati sulla democrazia, accettassero questa Turchia. Potrebbero invece presentare un “pacchetto di proposte” per risolvere democraticamente la questione curda. Una Turchia che rispettasse le minoranze, etniche e religiose, rappresenterebbe una ricchezza per l’Europa. (

    (Gianni Sartori – 4 novembre 2007)

    INTERVISTA A LEYLA ZANA, LA VOCE DEI CURDI (30 ottobre 2008)

    L’8 dicembre 1994 veniva pronunciata la sentenza di condanna contro otto parlamentari curdi, sette dei quali membri del Partito democratico, DEP, messo fuorilegge. Accusati di collaborazione con il PKK e di “attentato all’integrità dello stato”, cinque imputati, tra cui Leyla Zana, furono condannati a 15 anni di carcere. Gli altri a 3 anni e sei mesi. La corte aveva lasciato cadere le accuse di “alto tradimento” evitando quindi ai condannati la pena di morte. Presumibilmente grazie alle pressioni internazionali – tra cui un appello dal presidente francese Mitterand – esercitate sul governo di Tansu Ciller (“donna dell’anno” 1993 secondo i telespettatori di Euronews). E intanto proseguivano le attività anti-curde, sia quelle ufficiali ( secondo l’agenzia Anatolia l’ultima offensiva dell’esercito nella provincia di Tunceli aveva causato la morte di una cinquantina di presunti guerriglieri) che quelle “coperte”: qualche giorno prima era stato colpito il giornale Ozgur Ulke, un morto e una ventina di feriti. Nel 1995 il Parlamento Europeo assegnava a Leyla Zana il premio Sakharov per la libertà di espressione; nel 1996 ha ricevuto il premio internazionale Rose dell’organizzazione del movimento operaio danese per la difesa dei diritti umani. Mentre era ancora detenuta nel carcere speciale di Uculanlar (Ankara) le è stata accordata la cittadinanza onoraria di Roma. Per molti anni l’ex prigioniera politica è stata la “bestia nera” delle unità speciali turche, responsabili di una durissima repressione nei territori curdi. La sua immagine veniva usata come bersaglio nei poligoni di tiro. A Leyla Zana stava per essere attribuito anche il premio Nobel per la Pace, ma poi la candidatura venne accantonata per le proteste della Turchia.

    Giovedì 30 ottobre 2008, presso l’Ateneo Veneto di Venezia, si è svolto un incontro-dibattito con Leyla Zana. Vi hanno preso parte anche Hevi Dilara, Tiziana Agostini, Orsola Casagrande, Baykar Sivazliyan e Luana Zanella. Un’occasione per conoscere “non solo la sua storia di donna curda, ma la storia di una comunità, di una nazione senza stato” ha commentato Tiziana Agostini. I curdi sono un popolo che “dall’antica Mesopotamia hanno saputo arrivare fino ai nostri giorni per la loro forte identità, forza morale, generosità”. Attualmente smembrato in quattro stati, il Kurdistan “galleggia” su un mare di petrolio. Nel Kurdistan “iracheno” (Kurdistan Sud) i bombardamenti ordinati da Saddam – sulla città di Halabja e sui villaggi del Nord-est – sono stati un disastro per un popolo in buona parte di agricoltori. Il cianuro è penetrato nel terreno e gli effetti durano ancora a venti anni di distanza. Se qui oggi i curdi possono parlare la loro lingua, altrove il “diritto alla parola” viene ancora negato. In particolare nel Kurdistan “turco” (Kurdistan Nord, 20-25 milioni di curdi) dove le tensioni sono maggiori. La giornalista Orsola Casagrande ha ricordato che “sono ormai passati diciotto anni da quando Leyla Zana venne eletta pronunciando poi nell’aula del Parlamento parole di pace e speranza in lingua curda. Successivamente arrestata e condannata per separatismo, ha trascorso 11 anni in carcere e decine di altri processi nei suoi confronti restano ancora aperti”.
    “Nel Kurdistan “turco” c’è la guerra –ha continuato Casagrande- e anche in questi giorni proseguono i bombardamenti da parte dell’esercito e dell’aviazione. Inoltre la Turchia si è arrogata il diritto di bombardare il Kurdistan “iracheno”. Per aver tradotto in curdo (oltre che in inglese, tedesco, francese…) gli opuscoli turistici, alcuni sindaci sono ora sotto processo. Nelle scuole la lingua ufficiale è quella turca. Si può scegliere di studiare l’inglese o il tedesco come lingua straniera, ma non il curdo. Quest’anno lo stand dei curdi a Francoforte è stato assalito da estremisti turchi per aver esposto la bandiera del Kurdistan e le emittenti curde in Europa sono minacciate di chiusura”. Un panorama desolante. Baykar Sivazliyan, autore del recente libro Ospiti silenziosi. I curdi in Italia, ha ricordato che “ormai un quarto di secolo fa l’Ateneo Veneto aveva organizzato a Venezia, insieme alla Fondazione Lelio Basso e alla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, un incontro analogo dedicato al genocidio armeno di cui oggi almeno si comincia a parlare anche in Turchia”. Una nazione moderna, coraggiosa dovrebbe affrontare alcune questioni come il fatto che “in Turchia non esistono solo turchi, quasi un terzo della popolazione è costituito da curdi”. Per la prima volta in Italia, Leyla Zana racconta che “quando ieri sera sono arrivata a Venezia era buio, ma oggi non riuscivo a staccare gli occhi dalle infinite bellezze della città”. In mattinata c’era stato l’incontro con il sindaco Massimo Cacciari e con l’assessora alla cultura Luana Zanella che ha paragonato la situazione dei curdi a quella del Tibet. Leyla Zana ha ringraziato soprattutto “Tiziana e Orsola per aver raccontato quello che sta subendo il mio popolo”.

    In Turchia per il vostro popolo la situazione resta difficile. Rifiuto da parte del governo di riconoscere l’identità curda e dura repressione. Ce ne può parlare?
    Penso che nessun popolo al mondo altrettanto numeroso come i curdi (circa 40 milioni nda)
    sia rimasto senza un proprio stato. Quando venne fondata la Repubblica di Turchia i parlamentari curdi eletti sono andati nel Parlamento, ma poco tempo dopo molti furono impiccati. Eppure Mustafa Kemal, Ataturk, aveva detto che era “la repubblica dei turchi e dei curdi”. Anche nel 1991 siamo stati eletti come curdi, 22 maschi e io, la prima donna eletta dal mio popolo a cui avevo promesso “sarò la vostra lingua”. Ho giurato in curdo, nella mia madre lingua e quasi tutti i parlamentari mi hanno attaccato. Io dicevo: perché non ascoltate le mie parole che parlano di pace? Loro sostenevano che dovevo parlare in turco, ma noi siamo nati curdi, abbiamo la nostra cultura, storia, lingua. Noi vogliamo convivere con voi, dicevo, ma voi dovete accettare la nostra identità. Ma per loro noi siamo “i turchi rimasti sulle montagne” e così ci hanno incarcerato per molti anni. Oggi, a causa della lotta di liberazione, riconoscono l’esistenza dei curdi, ma non i loro diritti. E tutto il mondo sembra ascoltare il governo turco quando dichiara che non sta violando i diritti umani. Ovviamente gli stati fanno i loro interessi e chiudono gli occhi sulla condizione dei curdi. Noi non siamo contro i rapporti economici, ma chi vende armi alla Turchia dovrebbe sapere che verranno usate contro i villaggi curdi. Molti curdi sono venuti in Europa, anche qui a Venezia. Però vorrei precisare che il mio popolo non è scappato per un pezzo di pane. Se avessero potuto continuare a vivere nella loro terra, a lavorare nella loro terra, i curdi non sarebbero venuti all’estero. Il Kurdistan non è ricco soltanto di petrolio e giacimenti minerari, ma anche di acqua, la principale fonte di vita. Se si avviasse un dialogo la ricchezza della nostra terra ci basterebbe per vivere.

    D. Vien da chiedersi come possano i curdi continuare a vivere in questa situazione…
    Vivono male infatti. Nel Nord Kurdistan più di 3500 villaggi sono stati evacuati. Molti curdi sono fuggiti in Europa, altri nelle metropoli turche. Soprattutto questi ultimi incontrano grandi difficoltà, il loro tasso di disoccupazione è altissimo. Nelle città turche i bambini curdi di sei-sette anni vendono fazzoletti e altri oggetti per la strada, mentre i loro coetanei vanno a scuola, fanno sport, imparano altre lingue. Molti bambini curdi figli di sfollati devono lottare per un pezzo di pane. Noi diciamo che “il peso della vita gli ha bloccato la schiena”. Nel mio caso, anche la mia famiglia è spezzata in quattro, come il mio popolo.

    D. Esiste qualche Stato disposto a riconoscere l’indipendenza del Kurdistan?
    Il Kurdistan è diviso in quattro stati, due arabi, uno persiano e uno turco che hanno stretto alleanze per non riconoscere uno stato curdo. Dopo la caduta di Saddam la repressione è aumentata sia in Iran (dove molti curdi sono stati impiccati) che in Siria, dove attualmente i curdi non hanno diritti. Ogni volta che i curdi, divisi dalle frontiere statali, riprendono a dialogare tra loro, gli stati intervengono attaccandoli, creando difficoltà. Da quando nel Kurdistan Sud (la parte “irachena”) esiste una certa autonomia, la Turchia attacca militarmente perché non accetta questa realtà. Nessun governo aiuta i curdi. Naturalmente noi non chiediamo aiuti agli stati; ci basterebbe che almeno non sostenessero quelli che ci bombardano. Ogni popolo ottiene la libertà con le proprie mani, ma l’amicizia tra i popoli può avvicinare questo momento.
    (Gianni Sartori – ottobre 2008)

    PS. Poco tempo dopo questa intervista, il 4 dicembre 2008, Leyla Zana veniva nuovamente condannata a dieci anni di carcere dalla corte di Diyarbakir. La sua “colpa”, aver espresso durante conferenze e manifestazioni, sostegno al PKK e al suo fondatore Ocalan. Per il momento la condanna è sospesa.

    ESECUZIONE DI RUE LA FAYETTE: FORSE UN “EFFETTO COLLATERALE” DEI MUTAMENTI IN ATTO NELLO SCACCHIERE MEDIORIENTALE?

    Questo intervento sul ruolo delle donne curde nella lotta per l’autodeterminazione risulterebbe monco se non ci occupassimo anche dei tragici eventi dell’anno scorso (9 gennaio 2013) a Parigi, nella sede del Centro d’informazione del Kurdistan in rue La Fayette.
    Non è forse del tutto casuale che l’assassinio delle tre militanti sia avvenuto in momento di significativi interventi francesi nello scacchiere mediorientale (in senso lato). Mentre l’esercito francese interveniva sia nel Mali che in Somalia, il presidente Hollande si preoccupava di portare in Francia alcune centinaia di interpreti afgani che in patria rischiavano di subire ritorsioni in quanto “collaborazionisti”.
    E anche gli omicidi di rue La Fayette proiettavano l’ombra dei conflitti medio-orientali nel cuore dell’Europa. In un primo momento la triplice esecuzione delle esponenti curde legate al PKK ha rischiato di far saltare le trattative tra il governo turco e il prigioniero politico Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori curdi. Oltre al capo dei servizi segreti segreti Hakan Fidan, agli incontri avevano partecipato anche esponenti del Partito per la pace e la democrazia (BDP, talvolta considerato la “vetrina legale” del PKK). Particolare inquietante, l’uccisione di Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Soylemez è avvenuta appena due giorni dopo le rivelazioni del giornale turco Radikal sull’esistenza di trattative per porre termine al conflitto iniziato nel 1984. In particolare Ocalan aveva richiesto ai combattenti un nuovo cessate-il-fuoco e ottenuto dai militanti curdi in carcere la sospensione dello sciopero della fame iniziato un mese prima. Tra le ipotesi inizialmente più accreditate, quella di un’azione dei “Lupi Grigi” (estrema destra nazionalista turca), in combutta con settori dell’esercito contrari alla soluzione politica. Questa sembrava essere l’opinione anche di Zubeyir Aydar che aveva definito il triplice omicidio “un attacco diretto contro i negoziati sull’isola di Imrali (dove Ocalan è rinchiuso dal 1999 nda)”. L’alto responsabile in Europa del PKK aveva quindi accusato “forze oscure legate allo Stato profondo turco”. Alcuni osservatori evocavano invece un possibile intervento dei servizi segreti siriani che avrebbero visto con favore la ripresa della guerriglia curda in quanto destabilizzante nei confronti della Turchia. Scontate le dichiarazioni di Erdogan e del vice-primo ministro Bulent Arinc. Per i due esponenti dell’AKP si trattava di “un regolamento di conti interno al PKK”. Una tesi non facilmente sostenibile pensando al ruolo delle tre militanti assassinate. Particolarmente amata dalla resistenza curda, Sakine Cansiz era stata una delle fondatrici del PKK e aveva trascorso molti anni in prigione dove aveva subito la tortura. Fidan Dogan, 32 anni, era la responsabile del Centro d’informazione del Kurdistan dove è avvenuto il massacro. La più giovane, Leyla Soylemez di 24 anni, dirigeva l’organizzazione giovanile. Tra le persone indagate, un giovane turco che da qualche tempo collaborava con il Centro di informazione del Kurdistan di Parigi.
    Gianni Sartori

    *Nel gennaio di quest’anno (2014) i sospetti si erano concentrati su Omer Guney. L’uomo potrebbe essere stato un esecutore di ordini provenienti dai servizi segreti turchi. Dal suo passaporto, rimasto a lungo nascosto nell’auto, è stato possibile scoprire che si era recato varie volte a Istanbul e Ankara, in particolare nel dicembre 2012, poco prima della triplice esecuzione. Dal suo telefono portatile si è potuto scoprire che l’8 gennaio 2013, il giorno prima degli omicidi, tra le 4,23 e le 5,33 del mattino, era entrato di nascosto nella sede dell’associazione curda a Villiers-le-Bel per fotografare 329 tessere di aderenti. Due giorni prima aveva ugualmente fotografato altri documenti non pubblici. Alcuni suoi amici, rintracciati in Germania da vari giornalisti, hanno dichiarato che quando Guney viveva in Germania (tra il 2003 e il 2011) era considerato “un turco di estrema destra, simpatizzante del partito nazionalista MHP, i Lupi Grigi”. La polizia francese sta ancora indagando sul gran numero di telefonate verso numeri definiti “atipici, tecnici la cui funzione o origine non può essere individuata”. Anche i documenti pubblicati recentemente dalla stampa turca di sinistra, sembrano confermare che Omer Guney agiva su ordine del MIT, i servizi segreti turchi. In una registrazione pubblicata in Internet si sente una persona, presentata come Omer Guney, spiegare dettagliatamente il suo piano per eliminare Sakine Cansiz. Nella conversazione si parla poi di altri possibili bersagli curdi, in particolare di Nedim Seven. Mentre la polizia francese sta ancora indagando per identificare la voce in questione, per le associazioni curde e per le persone che lo hanno conosciuto non ci sarebbero dubbi. Quella è la voce di Guney, riconoscibile per alcuni caratteristici tic linguistici. Convinto che quello di rue La Fayette sia “un assassinio ordinato dalla Turchia” anche Gulten Kisanak, co-presidente del Partito per la Pace e la democrazia. Incarcerato a Fresnes, Omer Guney continua a proclamare la sua innocenza. Non ha però saputo nemmeno spiegare perché lui, un turco, si spacciasse per rifugiato curdo da quando era arrivato in Francia.
    Il quotidiano “Sol Gazete” ha invece pubblicato un documento, definito “un rapporto del MIT” e datato 18 novembre 2012, dove si parla di un finanziamento di 6mila euro per una “fonte” allo scopo di “procurarsi l’equipaggiamento necessario per il lavoro da compiere” e di ulteriori istruzioni per “passare alla fase finale”.
    Se i sospetti dovessero essere confermate saremmo di fronte all’ennesimo omicidio di Stato (gs)

  2. Gianni Sartori
  3. Gianni Sartori

    Un punto fermo, la solidarietà alla resistenza curda;
    ma anche un pro-memoria di qualche anno fa sulle politiche imperialiste statunitensi che hanno alimentato l’attuale disastro nell’area…

    L’Iraq non è il Vietnam: è peggio! (Gianni Sartori gennaio 2007)

    Un episodio fra tanti. Alla fine di ottobre 2005 l’aviazione statunitense informava di aver effettuato “bombardamenti di precisione contro postazioni di terroristi stranieri” sul villaggio di Betha, nel nord dell’Iraq. Quasi immediata la smentita dei medici dell’ospedale di Qaim che parlavano di circa quaranta morti civili tra cui alcune donne e dodici bambini: un massacro. E intanto i superstiti scavavano con le mani tra le macerie alla ricerca di altri corpi.
    Avvenimenti del genere si contano ormai a centinaia nell’Iraq “liberato”.
    Confermando una tendenza in atto da tempo, nelle guerre sono soprattutto i civili ad essere vittime indifese di eserciti e milizie. In Iraq in particolare sono sempre più ostaggio sia delle truppe di occupazione (che sembrano non fare distinzione tra obiettivi militari e popolazione civile) e dei gruppi armati (resistenti, guerriglieri, terroristi…o come si voglia chiamarli).
    Proprio nel giorno dei bombardamenti di Betha (31 ottobre 2005) il Pentagono, su richiesta del parlamento statunitense, rendeva pubblico un rapporto che calcolava in 26.000 gli iracheni uccisi o feriti dalla guerriglia dal marzo 2003. Ma con l’accortezza di non fare distinzioni tra civili ed esponenti delle forze di sicurezza. E soprattutto non forniva indicazioni sulle vittime imputabili alle truppe di occupazione. Secondo l’organizzazione “Iraq body count” il numero dei civili uccisi sarebbe compreso tra 27mila e 30mila, il 37% dovuto al fuoco americano o inglese. Usa e Gran Bretagna sarebbero inoltre responsabili del ferimento di più di 40mila persone.
    E’ opinione di molti osservatori che queste cifre rappresentino solo una parte del massacro in atto contro la popolazione irachena. Per ammissione dello stesso Pentagono “il dipartimento della difesa non mantiene un conteggio preciso delle vittime irachene”. L’ex sergente dei marines Jimmy Massey (dopo aver raccontato di aver preso parte alla sistematica uccisione di civili ai posti di blocco) ipotizzava addirittura che il totale dei morti potesse arrivare a centomila. “Ma – aggiungeva – molto probabilmente non lo sapremo mai con certezza” , perché rimane incalcolabile il numero dei corpi abbandonati lungo le strade o frettolosamente sepolti in fosse comuni.

    Ovviamente sono più precisi i dati in merito ai caduti americani che da tempo hanno superato la soglia di duemila. Anche se l’amministrazione Usa continua a rassicurare i suoi cittadini insistendo sul fatto che il numero dei caduti (americani beninteso) è inferiore a quello del Vietnam, bisognerebbe calcolare anche le conseguenze future, traumi e malattie che perseguiteranno a lungo i reduci. Nella prima guerra del Golfo i caduti statunitensi furono poche centinaia, ma l’associazione dei reduci ha già denunciato più di ottomila decessi di ex militari che parteciparono alla “Tempesta”. Sono decine di migliaia coloro che in questi anni hanno accusato patologie dovute alle armi e munizioni in dotazione. Resta ora da vedere quali saranno gli effetti di uranio impoverito e fosforo bianco sui soldati inviati in Mesopotamia dal 2003. Per le popolazioni civili gli effetti sono invece già molto evidenti. Recentemente è tornato d’attualità uno degli avvenimenti più orrendi di questa guerra: l’attacco contro Falluja (la “città delle cento moschee” diventata la “Guernica irachena”) del novembre 2004, operazione denominata al Fajr (l’Alba).
    Nel suo libro “Fuoco amico” Giuliana Sgrena denunciava l’uso di Mk77 (in pratica napalm) e di fosforo bianco, citando proprio un’intervista al marine Jimmy Massey. Riportava anche il racconto di alcuni sopravvissuti che, tornati alle loro case (tra le poche rimaste in piedi), avevano trovato le stanze ricoperte da una polverina bianca. Molti si sentirono male e alcuni cominciarono a sanguinare appena iniziarono a pulire. E adesso ai racconti degli scampati si aggiungono le immagini atroci di quei corpi mummificati (ma con gli abiti intatti), di quei volti straziati dalla sofferenza. Proprio la recente diffusione di queste immagini ha rilanciato con forza il dibattito sull’uso da parte dell’esercito statunitense di armi chimiche, in particolare del fosforo bianco.
    Quest’ultimo era già tristemente noto per essere stato usato dagli Italiani in Etiopia, dai nazisti alleati di Franco nel bombardamento della città basca di Guernica (aprile 1937), dalla Raf britannica su Amburgo nel 1943, dagli Alleati su Dresda nel 1945, dagli Usa in Vietnam e da Ankara e Bagdad contro i curdi negli anni ottanta. Alle testimonianze di alcuni ex militari come Jeff Garret (“Ho sentito via radio l’ordine di usare il Willy Pete, nome del fosforo bianco”) si è aggiunto un documento del governo inglese in cui si afferma chiaramente che gli Usa “almeno in alcuni casi hanno usato armi chimiche”.
    Il direttore del centro studi per i diritti umani di Falluja, il biologo Mohamad Tareq al-Deraji, lo aveva già denunciato al Parlamento di Strasburgo. Aveva detto:” Una pioggia di fuoco è scesa sulla città, la gente colpita da queste sostanze ha cominciato a bruciare; abbiamo trovato gente morta con strane ferite, i corpi bruciati e i vestiti intatti”. Successivamente, dopo le smentite dell’ambasciata americana che protestava per la trasmissione di “Rai News 24” (“Falluja, la strage nascosta”), altre prove si sono aggiunte.
    Tre ufficiali statunitensi (un capitano, un sergente maggiore, un tenente) che avevano preso parte alla battaglia dell’8-20 novembre 2004, avevano inviato un memorandum agli Alti Comandi. Il testo venne poi pubblicato da Field Artillery (rivista dell’Artiglieria da campagna dell’esercito Usa) nel marzo 2005. Nel rapporto viene descritto l’uso del fosforo bianco contro obiettivi umani, per stanare gli insorti da trincee e cunicoli. Le azioni venivano denominate shake and bake (scuoti e cuoci). Il rapporto si conclude sottolineando come l’uso del fosforo bianco abbia avuto “effetti fisicamente e psicologicamente devastanti sugli insorti”. Anche un’altra rivista militare americana, Infantry Magazine, aveva riportato notizie in merito all’uso del fosforo bianco durante la battaglia di Erbil, nell’aprile del 2003.
    Il fosforo bianco usato in grandi quantità andrebbe considerato “un’arma di distruzione di massa di tipo non convenzionale” secondo Domenico Leggiero, ex ispettore internazionale al controllo degli armamenti. E aggiunge:” Il residuato dell’esplosione di fosforo bianco è un pulviscolo impercettibile che si posa ovunque, entra nelle stanze…reagisce con l’ossigeno, attacca in modo violento soprattutto mucose, bocca e apparato respiratorio. Funziona come una bomba neutronica, uccide ciò che è vivo”. Risale al 1980 la “Convenzione sulla limitazione e divieto delle bombe incendiarie” delle Nazioni Unite e al 1997 un nuovo documento sulla “proibizione di sviluppo, produzione, stoccaggio e uso di armi chimiche e sulla loro distruzione”. Documenti che, ironia della Storia, fornirono agli Usa la giustificazione per invadere l’Iraq.
    Gianni Sartori (gennaio 2007)

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