“ La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi ed oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”. Karl Marx, “Manifesto del partito comunista”, 1848.
O come 10 anni fa disse Warren Buffet, terzo uomo più ricco al mondo e soprannominato il saggio di Omaha : “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.
“Quando i responsabili della politica economica sembrano così avventatamente inconsapevoli della propensione alle crisi del capitalismo, quando ignorano così spensieratamente i segnali di pericolo che si vanno accumulando attorno a loro e definiscono “grande moderazione” il periodo di volatilità e turbolenza che si è registrato a partire dagli anni novanta, si potrà allora perdonare alla persona comune il fatto di non capire cosa esattamente l’abbia travolta allo scoppio di una crisi e di avere così poca fiducia nelle spiegazioni proposte dagli esperti.” David Harvey, “L’enigma del capitale” 2010
La tempesta che ci sta arrivando adosso anche in settori sociali come la sanità che pensavamo ormai sicuri, tuttalpiu bisognosa di limitati miglioramenti, ha iniziato a formarsi circa 30 anni fa: “Il Capitale – ci ricorda ancora Harvey nel suo L’enigma del capitale – non è un oggetto, ma un processo nel quale il denaro viene mandato continuamente alla ricerca di altro denaro” … “ dopo la crisi del 1973 – 1982, si è posto il grave problema di come assorbire un’eccedenza di capitale sempre maggiore nella produzione di beni e servizi” … “ La quantità di capitale eccedente assorbita nella produzione è diminuita progressivamene (nonostante tutto ciò che accadeva in Cina), perché, dopo un breve rimbalzo negli anni ottanta, i margini di profitto a livello globale hanno cominciato a diminuire. Nel tentativo disperato di trovare nuovi impieghi per questa eccedenza di capitale, una vasta ondata di privatizzazioni è dilagata per il mondo, giustificata dal dogma che le imprese gestite dallo Stato sono per definizione inefficienti e lassiste, e che l’unico modo di migliorare i loro risultati è quello di trasferirle al settore privato. E’ un dogma che a un attento esame non regge. E’ vero che alcune imprese statali sono inefficienti, ma altre non lo sono; per rendersene conto, basta viaggiare sulle ferrovie francesi e metterle a confronto con quelle pietosamente privatizzate degli Stati uniti e della Gran bretagna. E non c’è nulla di più inefficiente e scialacquatore del sistema sanitario statunitense, basato sulle assicurazioni private.”
Qui giova ricordare che proprio negli anni settanta la sanità degli Usa ha iniziato il suo cambiamento passando al privato, e oggi possiamo osservare che questo ha determinato una crescita dei costi talmente alta da rendorlo incomparabile al nostro SSN.
Parafrasando Harvey si potrà anche perdonare alla persona comune di non capire bene il chiaro e forte contrordine lanciato dal partito unico in questo paese che suona: lavoratori e cittadini, i diritti sanitari conquistati nel novecento non sono più sostenibili e, in fondo, “ si stava meglio quando si stava peggio”! Bisogna cambiare! La Carta costituzionale è vecchia! I patti con la Troika li abbiamo sottoscritti liberamente e li dobbiamo rispettare! Ce lo chiede l’Europa di ritornare al welfare aziendale (cioè le mutue)! Mentro non si può perdonare alla sinistra di non essere in grado di dire forte e chiaro nelle istituzioni: ma, scusa, quella non è l’Europa dei banchieri ?!
Proviamo a mettere due ragionamenti di seguito:
Giorgio Santini, senatore PD e membro Commissione Bilancio del Senato della Repubblica; già Segretario Generale aggiunto della CISL, scrive nella prefazione al libro “IL FUTURO DEL WELFARE E’ IN AZIENDA”, ovvero in futuro non ci sarà welfare fuori dall’azienda e a chi è fuori ci penserà la pietà sociale.
“Lo sviluppo del welfare aziendale è al centro del dibattito sul futuro economico-produttivo e sociale dell’Italia. … L’affermazione del welfare aziendale, infatti, è strettamente correlata alla riforma del nostro stato sociale, ai cambiamenti nelle relazioni industriali, al miglioramento dei parametri di produttività e competitività delle << nostre >> aziende, al miglioramento del benessere generale dei lavoratori e delle loro famiglie, all’impulso dato alla crescita di nuovi ambiti produttivi e del mercato del lavoro. Come si intuisce da questa breve carrellata stiamo parlando di un tema di carattere strategico di valore assoluto la cui piena e consapevole affermazione conviene a tutti: alle aziende, ai dipendenti e allo Stato (un po meno forse ai licenziati, ai disoccupati e ai lavoratori in nero e ai precari di ogni categoria, cioè la maggior parte dei giovani; ndr); riporto dal sito www.connessioiprecarie.org/ di alcuni giorni fa: “sembra che, nel corso del direttivo dei delegati e pensionati che si è svolto alcuni giorni fa a Torino Susanna Camusso abbia dichiarato: ” dieci milioni di voucher sono un numero spaventoso…Vuol dire che una parte di lavoro che era regolare adesso è diventato sommerso, non registrabile e spesso non pagato civilmente”- continua l’articolo senza firma- Susanna ha osservato che i voucher sono teoricamente un sistema di pagamento a ore mentre, di fatto, servono a coprire il lavoro nero… nel 2010 erano satti attivati poco meno di dieci milioni di voucher. Secondo i dati INPS dello scorso anno, però, la cifra ha raggiunto i settanta milioni”.
Conviene alle aziendeperché rende praticabile l’applicazione di un modello di organizzazione del lavoro fondato sulla piena valorizzazione delle risorse umane all’interno di un clima aziendale positivo e collaborativo.
Conviene ai dipendenti, perché, in un generale contesto di limitazioni economiche, rende praticabile la strada dell’aumento del loro potere d’acquisto nell’ambito di un diffuso benessere lavorativo e familiare.
Conviene allo Stato, e in particolare alle sue politiche di welfare non più capaci, da sole, di reggere all’urto pesante dell’insostenibilità economica della spesa sociale messa in crisi dall’aumento dei nuovi bisogni e dai vincoli di bilancio.”
Ancora più perentoria, nello stesso libro, Franca Maino che è ricercatrice preso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano e Direttrice del Laboratorio Percorsi di secondo Welfare
“ Più di altri paesi, l’Italia si trova oggi ad attraversare una fase caratterizzata dal fatto di aver raggiunto e superato una << soglia >> oltre alla quale il ritorno al modello di Welfare pre-crisi (cioè il SSN: ecco a cosa servivano le superbufale sugli sprechi in sanità e i conseguenti tagli; ndr) non solo non è più possibile, ma non appare nemmeno auspicabile, essendo lo scenario economico e sociale profondamente cambiato rispetto agli anni in cui tale modello è stato istituito ed è andato consolidandosi (proprio come sintetizza Warren Buffet; ndr)” … “Il welfare in azienda rappresenta anche uno strumento in grado di favorire uno scambio virtuoso fra miglioramento del benessere e del reddito dei lavoratori e una migliore efficienza produttiva dell’impresa, la riduzione dell’assenteismo e la migliore qualità dei prodotti (basta con queste decine di migliaia di assenteisti ogni anno per tumore; ndr)” … “ La crisi ha accentuato il problema, e per garantire un minimo di cure << professionali >> per i non autosufficienti molte famiglie hanno dovuto ridurre i consumi, intaccare i risparmi, e in molti casi indebitarsi (e applicare la legge, cioè il diritto di scelta con l’impegnativa, Legge 229/’99 e tempi d’attesa eguali a quelli a pagamento, Legge 120/’07 no? vero?!; ndr)” …” Dati i vincoli di bilancio ma anche i problemi di inefficienza e rigidità del sistema di welfare italiano, il settore pubblico non può essere la soluzione (ecco cosa serviva il cambiamento del art. 81 Cost. nel 2012 che ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione; ndr)” … “Tra i diversi << pacchetti >> di welfare aziendale, da segnalare sono anche le soluzioni che vedono direttamente coinvolti i dipendenti nel raggiungimento di livelli di produttività cui sono associati bonus << in welfare >>, ovvero convenzioni e voucher per diversi tipi di prestazioni: mediche, socio-sanitarie, di sostegno al reddito familiare sotto forma di polizze assicurative e assistenza a minori, anziani e disabili (la salute non è più come diritto ma come capacità produttiva dipendente; ecco cosa serve Cambiare la carta costituzionale; ndr)” … “ Come per le pensioni, gran parte della diffusione dei fondi sanitari è legata ad accordi siglati in sede di contrattazione categoriale nazionale ma sempre più si vanno diffondendo fondi istituiti a livello aziendale o inter-aziendale, una parte dei quali frutto di accordi e di contrattazioni tra le parti sociali e una parte per intervento unilaterale dei datori di lavoro. Tali fondi offrono ingenerale copertura anche ai familiari dei lavoratori iscritti.” … “Va infine sottolineata l’importanza della sostenibilità finanziaria perché le risorse pubbliche e private sono scarse e vanno spese bene. Ma anche perché il pubblico non può scaricare i costi sul privato o sul privato sociale”… “ Diventa quindi auspicabile sperimentare soluzioni innovative sotto il profilo finanziario, come ad esempio la sharing economy (“economia della condivisione”; ndr), perthership finanziario tra imprese, banche, fondazioni bancarie e soggetti pubblici, nuove forme di comparticipazione verso il superamento della gratuità per tutti e per tutte le prestazioni”
Comunque grazie, senatore Santini e dott.ssa Maino, per la chiarezza e per averci ricordato che il Welfare aziendale è la conseguenza dello smantellamento dello Stato sociale, e dello svuotamento dello Statuto dei lavoratori, proprio per quel patto con i banchieri di cui Renzi rivendica il rispetto, a parte qualche recente baruffa chioggiotta. Cioè, il welfare aziendale come uno strumento padronale di quella lotta ininterrotta fra mondo del lavoro e capitalisti, come ci ha ricordato più di recente l’uomo saggio di Omaha.
Nulla di nuovo naturalmente sotto il sole; scriveva il prof Giuliano Amato prima della sua controriforma sanitaria che, da capo del Governo, esplicitò con la legge 502/1992:“La mia idea non è che dobbiamo far pagare tutti di più, ma che sia necessario avviare una trasformazione del Servizio sanitario. Non possiamo continuare con la pratica di voler dare tutto a tutti, che poi significa dare a tutti pessimi servizi. Si vuol introdurre elementi di competizione nel sistema pubblico? Allora bisogna essere coerenti: si assicuri per tutti una gamma di servizi uniformi. Dopo di che, a cominciare dalle fasce di reddito superiori, una parte della protezione sanitaria sia rimessa a quote di contributo lasciate nelle tasche dell’utente e affidate a casse integrative che negozino con l’erogatore pubblico o anche privato servizi più efficienti. ”In La Repubblica” 27 settembre 1992
Per Amato – commenta Rosy Bindi in suo libro – bisognava ”rendere coerenti le istituzioni sociali con l’economia reale di oggi e di domani, senza abbandonare né i fini né i principi”. Pertanto è necessario “che le due principali coperture, quella previdenziale e quella sanitaria, si spostino, almeno pro quota, dalla contribuzione a carico delle imprese al risparmio di chi è in grado di accumulare risparmio; e che questa seconda quota venga affidata a fondi integrativi privati, che si remunerano sul mercato finanziario… da un lato lo Stato dovrebbe ridurre le sue dirette erogazioni alla sola copertura dei bisognosi, eliminando quelle che oggi alimentano protezioni categoriali estese a favore di redditi superiori. Dall’altro, le fasce di reddito in grado di accantonare risparmio e costrette dal nuovo assetto a destinare una quota per coprire, al di là della copertura obbligatoria, i propri bisogni previdenziali e sanitari, dovrebbero rinunciare ad appagare altri meno essenziali bisogni”. “La Salute Impaziente,” Jaca Book, 2005. (la sottolineatura è mia)
“Nel dibattito teorico,” ricorda il ministro Bindi, “suscitava grande interesse l’esperienza olandese, collocata a cavallo tra le due opzioni antitetiche del sistema assicurativo e quello universalistico.” Ibidem
Commenta Rosy Bindi: “In molti nel centro sinistra erano convinti, e in parte lo sono tuttora, che la diffusione di forme di finanziamento privato, in sostituzione della fiscalità generale, possa risolvere il dilemma scarsità delle risorse/tutela della salute senza compromettere la coesione sociale e i principi della solidarietà.” Ibidem
“Il ragionamento di Amato,” chiarisce il ministro, “ha il merito di esplicitare – da sinistra – una visione “residuale” delle politiche pubbliche e un’idea di società più vicina al modello neoliberale che esalta prima di tutto la competizione frutto delle differenze e delle libertà dell’individuo, anziché al modello sociale democratico, che invece mette in relazione la libertà del singolo con la responsabilità pubblica in cui l’accento si sposta dalle pari opportunità di partenza alle pari opportunità di arrivo.” La Bindi prosegue la sua analisi ricordando che “le resistenze più esplicite venivano da Confindustria e dal Polo uniti in un asse politico che faceva leva sul sostegno, istituzionalmente rilevante, della Regione Lombardia. Confindustria si presentò al tavolo della riforma dello Stato Sociale con un documento, <<Riprogettare la sanità>>, in cui di fatto sposava il modello olandese… Confindustria chiedeva di “spezzare il monopolio pubblico nella gestione dei fondi raccolti attraverso la fiscalità generale” e di introdurre “una pluralità di enti gestori del servizio sanitario pubblici e privati” con il compito di gestire le risorse destinate alla copertura sanitaria obbligatoria. Anche le compagnie assicuratrici e i fondi privati, non solo quindi le Regioni, avrebbero potuto contrattare con i produttori, pubblici e privati pacchetti di servizi sanitari da offrire ai prorpi clienti. La copertura a carico dello Stato sarebbe stata garantita solo ai più poveri e ai malati più gravi… L’assistenza specialistica, i ricoveri ordinari, la riabilitazione – il grosso della sicurezza sanitaria attuale – sarebbero stati forniti dalle assicurazioni private.” Ibidem
Non sfuggì allora all’osservazione del ministro Bindi che “la preoccupazione principale” di Confindustria “era quella di neutralizzare l’ipotesi dell’Irap, la nuova imposta regionale che, una volta aboliti i vecchi contributi sanitari servirà a finanziare la sanità.
Più di recente il dott. Julian Tudor Hart general practitioner (medico di medicina generale)e per 30 anni e autore di numerosi libri e ricerche scientifiche in medicina, sosteneva in una relazione tenuta al Social Forum greco in occasione del summit internazionale sulla globalizzazione il 18 giugno 2003:
“L’assistenza sanitaria è andata industrializzandosi perché è stata alla fine riconsciuta come un particolare tipo di produzione , con vita aggiunta come prodotto. Grazie all’assistenza medica, le vite possono essere rese più lunghe e migliori. Questo prodotto non è più solo speranza, che riposa largamente su effetti placebo e reciproca suggestione (com’è stato per la maggior parte fino intorno al 1935), ma è una realtà che cresce esponenzialmente con i progressi della conoscenza. Oggi, i limiti di questa realtà non sono definiti da vincoli di conoscenza, ma dai principi dominanti sulla natura dell’economia dell’assistenza sanitaria. Le idee di politici con le mani sul potere statale riconoscono un solo possibile tipo di economia e un solo possibile modo di produzione, produzione capitalistica di mercato, che non si espande per venire incontro ai bisogni umani ma per massimizzare il profitto. Credono che se il sistema sanitario è un sistema di produzione, i suoi prodotti debbono essere merci. Sebbene essi si riempino la bocca delle necessità di intere popolazioni in pratica assumono che queste possano essre sodisfatteperseguendo sola la domanda immediata dei consumator, dando la priorità agli scambi più vantaggiosi. Per tutti gli altri beni, la domanda di consumo è limitata solo dalla capacità di pagare”… “Quando la scienza medica fa della vita aggiunta una probabilità, o quanto meno una possibilità convincente, e quando l’assistenza medica diventa una merce, seguono due conseguenze. Prima: in un libero servizio pubblico la domanda di consumo diventerà insostenibile per lo Stato. Seconda: in un libero mercato, i fornitori industriali troveranno una domanda infinita per un prodotto di infinito valore – percepito il bene estremo. Oggi non abbiamo libero mercato per quasi tutto, perché non anche per la sanità? Dal punto di vista delle classi politiche dirigenti, non c’è nemmeno bisogno di porre una tale domanda; loro hanno già la risposta.
Nel settembre 1996 i leader dei piani statunitensi di assistenza sanitaria stile aziendale si incontrarono a Città del Messico per discutere le opportunità di estendere il proprio business a livello internazionale. Essi avevano rapidamente e proficuamente espanso i loro affari in casa propria fino ad includere più di 100 milioni di cittadini statunitensi, la maggior parte dei quali sufficientemente ricchi e in salute da rappresentare dei clienti vantaggiosi. Come l’ha messa uno di questi direttori esecutivi, “Presto avremo esaurito la Domanda negli Stati Uniti”…. “Per quanto non ci sia una solida prova che la sanità aziendale abbia di fatto ridotto i costi o innalzato la qualità (oggi, a 12 da questo scritto, tutti i dati dicono che i costi sono decisamente più alti, ndr), il suo avvento è effettivamente coinciso con un plateau che ha rapidamente innalzato, per la prima volta in vent’anni i costi per l’assistenza sanitaria negli USA”…. “Negli USA la sanità aziendaleha reso estremaente vantaggiosaeconomicamentel’assistenza sanitaria, fino a che non è entrata in conflittocon i costidelle persone con problemi cronici e senza risparmi. L’assitenza sanitaria per quella “ parte giustamente proccupata” può portare agli investitori guadagni consistenti, fino quando essa non si assume responsabilità nei confronti dei veramente ammalati, dei veramente poveri e dei pazienti veramente cronici. Schemi in cui più del 65% degli assicurati faccia un uso significativo della propria assicuarazione sanitaria nel corso dell’anno non sarebbero vantaggiosi” … “Nei sistemi previdenziali riformati, l’assistenza stile aziendale verrà offerta da fornitori in competizione in accordo con lo Stato. Sebbene saranno necessari alcuni oneri diretti per il paziente, onde limitare la domanda di consumo, la maggior parte se non l’intera spesa potrebbe essere coperta dallo Stato, almeno nelle prime fasi, quando il pubblico ancora ricorderà di aver avuto, un tempo, un Servizio Sanitario Nazionale. Le persone non redditizie, troppo povere, troppo malate, troppo dementi o troppo incontinenti di urina e di feci per attrarre una qualsiasi impresa fornitrice, in qualche modo continueranno ad essere assistiti dal servizio pubblico di Stato” … “ A partire dal 1945, la gran parte della autorità morale dei governi europei del dopo guerra è dipesa dal fare della sanità un diritto dei cittadini e non una merce che si compra.” Oggi in “ IL DIRITTO ALLA SALUTE”, edizioni Punto Rosso 2006.
A proposito di Mutue forse è bene ricordare che l’Italia ha già vissuto quel tipo di sistema sanitario e, seppur a fatica, se ne è liberata per gli eccessivi costi e l’iniquità ed inefficienza delle prestazioni. Utile ricordare cosa scrisse delle mutue il prof. Giorgio Ruffolo in un suo libretto del 1975 precedente alla Riforma sanitaria 833/’78:
“…il sistema introduce e consolida forti sperequazioni tra le varie categorie di cittadini: rispetto alla quantità e qualità delle prestazioni erogate, ai modi dell’erogazione e all’incidenza dell’onere contributivo. Ciò non costituisce soltanto un grave ostacolo alla sua programmabilità e alla sua efficienza. Costituisce sopratutto, un fattore di degenerazione corporativa e clientelare. Le << mutue >> sono ottimi strumenti per l’aggregazione degli interessi, e quindi per il controllo politico dei gruppi sociali. Anziché organismi di trasmissione della domanda sanitaria, finiscono per diventare cinghie di trasmissione di interessi politico elettorali. … La politica del disordine mutualistico corrisponde ad una logica di potere.”… “ L’analisi del sistema dal punto di vista della sua efficacia e del suo costo giustifica un giudizio negativo. Il costo sociale della sua mancata riforma è misurato dagli sprechi, che consistono in inefficienze allocative e distributive. La struttura privatistica-sovvenzionata implica una tendenza incorporata allo spreco consumistico. La cosiddetta << domanda spontanea >> degli utenti è deviata dal suo vero scopo, e cioè dal perseguimento di esigenze corrispondenti ai bisogni effettivi di igiene e di salute, verso l’accumulazioni di prestazioni spesso inutili, non di rado dannose, sempre costose. La sua struttura corporativa dà luogo alla formazione di privilegi a favore degli operatori del sistema – mutue, medici, industria farmaceutica – e alla cristallizzazione di interessi politici attorno a queste posizioni di rendita. Il peso dello spreco e dei privilegi, in termini finanziari sta rapidamente diventando insopportabile per l’economia nazionale e per la finanza pubblica. E’ sempre più evidente che operazioni puramente contabili – come il ripiano dei deficit e il consolidamento dei debiti delle mutue – non risolvono il problema, ma si limitano a spostare il peso della crisi nello spazio (p. es., dalle mutue allo Stato) o nel tempo (p. es., dall’indebitamento a breve all’indebitamento a lungo termine).
E’ altrettanto evidente che, prima o poi, la crisi sarà risolta (anche se l’agonia del sistema ha dimostrato una << vitalità >> sorprendente, con effetti gravi di depressione sull’economia e di corruzione sulla politica del Paese)” – e pensando alla Riforma sanitaria, che si sarebbe realizzata con la legge 833, tre anni dopo – “ Il principio della parità di tutti i cittadini nel diritto alla salute comporta il superamento dell’attuale struttura mutualistica frazionata e la sua sostituzione con un servizio sanitario nazionale, che garantisca eguaglianza ed uniformità delle prestazioni standard a tutti i cittadini. Ciò comporta, a sua volta, una disciplina pubblica delle principali funzioni del servizio sanitario, che garantisca uguaglianza ed uniformità delle prestazioni standard a tutti i cittadini.. Ciò comporta, a sua volta, una disciplina pubblicistica delle principali funzioni del servizio sanitario. E soprattutto del rapporto tra il servizio e i medici, e tra il servizio e l’industria farmaceutica.
Nel primo caso, si tratta di sostituire all’obiettivo della massimizzazione del reddito quella della massimizzazione della qualità e dignità professionale del medico, eliminando la componente mercantile e competitiva e assicurando al medico l’autonomia e i mezzi necessari di aggiornamento, di ricerca, di sviluppo culturale. Ogni pretesa al << prestigio >> della professione, da parte dei medici, è vana nell’attuale stato di mortificante commercializzazione della stessa. Ed ogni pretesa al tempo pieno e alla piena dedizione al servizio è vana, nell’attuale stato burocratico del rapporto tra medici e servizio sanitario. Nel secondo caso, si tratta semplicemente di adeguare la produzione farmaceutica alle esigenze di tutela della salute, anziché viceversa: e ciò richiede rapporti contrattuali tra governo e industria che consentano di promuovere la ricerca, di indirizzarla verso gli obiettivi del piano sanitario, di ridurre al minimo funzionale l’apparato di promozione commerciale, di esercitare, valendosi pienamente del potere di negoziazione del Servizio sanitario, un efficace controllo sui prezzi.”in“Riforme e Controriforme” Laterza 1975
Maurizio Nazari 24. Gennaio 2016
Cordiali saluti
Maurizio Nazari 24. Gennaio 2016
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