COMUNICATO STAMPA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA: “18 MARZO: VIVA LA COMUNE DI PARIGI!”. Riproduciamo questo articolo apparso cinque anni fa, in occasione del 140° anniversario della Comune. L’insegnamento della Comune rimane per noi sempre vivo!
Partito della Rifondazione Comunista del Veneto
LA COMUNE DI PARIGI – 140 anni fa, il 18 marzo del 1871, il popolo di Parigi insorgeva contro il tradimento delle classi dirigenti durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871 ed i rischi di una restaurazione monarchica. Fu una rivoluzione operaia perché l’84% dei Comunardi arrestati erano operai, perché lo erano il 30% dei membri del Consiglio generale della Comune, perché la legislazione della Comune fu sociale. Era una classe operaia intermedia fra quella delle botteghe artigiane tradizionali e quella delle prime fabbriche moderne. Una classe operaia adolescente, senza esperienza, isolata, divisa fra neo-giacobini, proudhoniani, neo-proudhoniani, blanquisti, bakouninisti, marxisti, massoni.
Quella della Comune fu una vera democrazia, una democrazia diretta: gli eletti erano revocabili, legati ad un mandato, sottoposti alla pressione delle camere sindacali, dei club, dei comitati di donne, della stampa, non vi era delega dei poteri né burocrazia. Sorsero fabbriche cooperative, vide la luce il primo movimento femminile di massa, l’Unione delle Donne, che ottennero che a eguale lavoro fosse corrisposto uguale salario e crearono numerose fabbriche autogestite. La libera unione divenne ufficiale e la famiglia costituita fuori del matrimonio (concubinato, figli naturali) venne legalmente riconosciuta. La prostituzione, considerata una forma “di sfruttamento commerciale di esseri umani da parte di altri esseri umani” venne bandita. Le donne, come Jeanne-Marie, alla quale rese omaggio Arthur Rimbaud, e Louise, l’infermiera della Fontaine-au-Roi alla quale Jean-Baptiste Clément dedicò Le Temps des Cerises, combatterono sulle barricate.
In un mondo afflitto dalla cancrena del razzismo, della xenofobia, del nazionalismo, la Comune realizzò il motto del Manifesto comunista: “Proletari di tutti i paesi, unitevi”. Parteciparono alla Comune Belgi, Garibaldini, Ungheresi, Polacchi e con essa solidarizzò attivamente il movimento operaio internazionale.
La Comune abolì il lavoro notturno, proibì le multe e le trattenute sui salari, combatté la disoccupazione, vietò l’espulsione degli inquilini, requisì gli alloggi sfitti. L’Esercito fu sostituito dal popolo in armi, la Guardia nazionale, che eleggeva i suoi ufficiali ed i suoi sottufficiali. La giustizia fu gratuita, la difesa libera, il giuramento politico di magistrati e funzionari, anch’essi eletti e revocabili, soppresso. Le Chiese furono separate dallo Stato, la scuola divenne laica, gratuita ed obbligatoria, l’insegnamento fu riformato. Riaprirono biblioteche, musei, teatri. La Federazione degli Artisti (Courbet, Daumier, Manet, Dalou, Pottier…) mise in cima al suo programma “la libera espansione dell’arte, libera da ogni tutela governativa e da ogni privilegio”. Alcuni provvedimenti della Comune ebbero un forte valore simbolico: il 28 marzo fu adottata la bandiera rossa e fu ristabilito il calendario repubblicano (anno 79 della Repubblica); il 12 aprile venne decretata la distruzione della colonna Vendôme, simbolo del dispotismo imperiale, che venne abbattuta il 16 maggio (Gustave Courbet verrà condannato a rimborsare i 323.091 franchi spesi per ricostruirla). Venne decisa la confisca dei beni del capo del governo di Versailles, Thiers e la distruzione della sua casa a Parigi (Thiers si farà rimborsare oltre 1 milione di franchi).
Il 21 maggio le truppe del governo di Versailles entrarono a Parigi; il 23 maggio uscì l’ultimo numero, il 68, del Père Duchesne; il 26 venne fucilato, in ginocchio, sugli scalini del Pantheon, Jean-Baptiste Millière; il 27 cadde l’ultimo bastione dei Comunardi; il 28 un numero tuttora ignoto di combattenti vennero uccisi davanti al Muro dei Federati e venne fucilato Louis Roussel, delegato alla guerra della Comune. La repressione durante e dopo la “settimana di sangue” (21-28 maggio 1871) che segnò la fine della Comune, fu proporzionata alla paura e all’odio delle classi dominanti: almeno 30 mila persone (fra cui donne e bambini) furono massacrate; i prigionieri furono 36 mila, 4586 i deportati in Nuova Caledonia. Ma “il cadavere è a terra, l’idea è in piedi”, come scrisse Victor Hugo. La Comune, dopo aver ispirato – fra innumerevoli altri tentativi – la Rivoluzione russa del 1917, la Rivoluzione spartachista, la Comune di Canton del 1927, il Fronte popolare, la Resistenza italiana, il maggio 1968 e la rivolta del Chiapas, vive nelle lotte di oggi e di domani.
Chi si reca oggi a Parigi, al cimitero del Père Lachaise, e lo traversa fino all’angolo nord-est dove, accanto alle tombe dei combattenti del movimento operaio, dei combattenti contro il nazifascismo, ai monumenti che ricordano i deportati nei campi di sterminio, si erge il Muro dei Federati che indica l’esistenza di una fossa dove furono gettati decine di migliaia di cadaveri, potrà vedere in tutte le stagioni dell’anno e con ogni tempo un flusso pressoché ininterrotto di persone di ogni età e provenienza che vengono a raccogliersi davanti a quel muro, e depongono un fiore ai suoi piedi.
E’ la prova che il patrimonio di idee della Comune di Parigi è essenziale in un’epoca come quella attuale, dominata dal potere del denaro, dove si predica il culto del successo individuale, dove il ventre della “bestia immonda” genera ancora razzismo, xenofobia, fanatismo, dove si tenta di rimettere in discussione la laicità dello Stato, dove la sovranità popolare è diventata un concetto vuoto, dove il compito assegnato al popolo dalla Costituzione francese del 1793, quello di realizzare “la felicità comune” sembra così terribilmente lontano.
Giustiniano Rossi (Circolo Prc di Parigi “Carlo Giuliani”)
IL “CHE” E’ VIVO!
Intervista con
Harry Antonio Villegas Tamayo (“POMBO”)
Gianni Sartori
Premessa. Non ho alcuna intenzione di stare ad aspettare il 50° anniversario per ricordare la figura del “CHE”. Prima di tutto perché “non si sa mai”…e poi perché sinceramente mi ricorderebbe troppo l’età, ormai quasi venerabile, del sottoscritto.
Tra l’altro (coincidenza sincronica ?) l’8 ottobre 1967, giorno della cattura del Che*, rappresenta anche il mio “battesimo del fuoco”, diciamo così. Quel giorno infatti, quindicenne, partecipai (forse l’intenzione iniziale era soltanto di assistere, per curiosità) alla mia prima manifestazione con cariche, durissime, della Celere 2 di Padova. L’immagine di alcune ragazze scaraventate e terra e picchiate con i manganelli (non ricordo più se sul cavalcavia di San Pio X o addirittura già allo stadio Menti, a un paio di chilometri quindi dalla base statunitense) è rimasta nella memoria, indelebile. Era soltanto l’inizio…ma prometteva bene.
Di Ernesto Guevara avevo già letto un libriccino pubblicato da qualche gruppo m-l (“Creare due, tre, molti Vietnam…copertina rossa, costava, ricordo, 50 lire)** e quindi non mi era del tutto sconosciuto. Ma sicuramente non potevo immaginare che mentre correvamo per le vie periferiche di Vicenza gridando contro l’imperialismo statunitense, a migliaia di chilometri di distanza, in Bolivia, quello stesso imperialismo stava portava a segno uno dei suoi colpi più azzeccati: mettere definitivamente a tacere una voce autorevole che parlava a nome dei dannati della terra (dannati nel senso di esclusi, chiaro).
Avevo incontrato Harry Antonio Villegas Tamayo (nome di battaglia “Pombo”) negli anni novanta durante un giro di conferenze organizzate, mi pare, dall’editore Roberto Massari. Il nome di Pombo, uno dei pochi sopravvissuti alla disfatta boliviana, è citato spesso nel “Diario del Che in Bolivia”, in particolare quando venne ferito in combattimento il 26 giugno 1967.
Nato nel 1940 a Yara (Sierra Maestra) da una famiglia di contadini poveri, conobbe il Che ed entrò nella guerriglia cubana a soli 14 anni. Da allora non smise mai di lottare. Seguì Guevara in Congo al fianco di Mulele (già ministro di Lumumba, assassinato su richiesta del colonialismo) e perfino di un giovanissimo Laurent Desiré Kabila (di cui il Che un po’ diffidava…), in anni più recenti a capo del paese paese africano (dopo la sconfitta del dittatore Mobutu) e in seguito morto in un poco chiaro incidente.
Pombo partecipò al tentativo boliviano e, dopo la morte del Che, andò a combattere in Angola contro il colonialismo portoghese. Poi in Namibia contro l’esercito sudafricano. Una lotta questa che, in quanto afrocubano, sentiva particolarmente sua dato che Pretoria aveva introdotto anche in Namibia l’apartheid.
Domanda: Cosa pensi del fatto che a distanza di tanti anni (l’intervista risale agli anni novanta nda) la memoria del Che sia ancora viva “nella mente e nel cuore” di tante persone, non solo in America Latina?
Pombo: Per noi latinoamericani il persistere del ricordo del Che a tanti anni dalla sua scomparsa non è motivo di sorpresa, dato che le ragioni per cui Guevara lottò sono ancora uguali nella sostanza. In America Latina, malgrado si vada pagando il debito estero, la miseria non diminuisce ma aumenta. Le nuove strategie adottate dai governi consistono nel trasferire nelle casse delle multinazionali il patrimonio, le risorse dei popoli latino-americani.
Domanda: A tuo avviso ci sono state precise responsabilità da parte di alcune componenti della sinistra latino-americana nella morte e sconfitta del Che (mi riferisco in particolare al ruolo del partito comunista boliviano di Mario Monje)?
Pombo: Naturalmente non si può accusare di responsabilità la sinistra in generale. Personalmente non ho elementi precisi per spiegare le ragioni per cui Mario Monje, segretario del partito comunista boliviano, non fu coerente con gli impegni presi. La sua scelta di non partecipare alla guerriglia ha avuto conseguenze disastrose. Secondo gli accordi avrebbero dovuto integrarsi nella guerriglia più di trentamila uomini (militanti del Partito Comunista Boliviano nda) e questo avrebbe creato le condizioni per poter veramente fare delle Ande la nuova Sierra Maestra, come pensava il Che. Poi le cose, come ben sai, sono andate diversamente.
Domanda: Come sei riuscito a salvarti dalla tragedia dell’8 ottobre ’67?
Pombo: Solo in cinque del gruppo di Guevara riuscimmo a sganciarci e, se pur feriti, sfuggire ai rangers (al momento dell’intervista solo tre erano ancora in vita nda). Io ero rimasto con la mitragliatrice nella parte alta del canalone per tenere occupati i militari mentre gli altri potevano allontanarsi. Quando cercai di riunirmi al gruppo erano già stati uccisi o catturati. Prima di riuscire ad arrivare in Cile ci toccò sostenere almeno una cinquantina di scontri con l’esercito boliviano. Infine ci consegnammo ai soldati cileni, ad un posto di frontiera. Avrebbero potuto fucilarci sul posto o anche consegnarci ai boliviani, che quasi certamente ci avrebbero fucilato come fecero con gli altri nostri compagni catturati. Per nostra fortuna in quel momento c’erano attriti tra Cile e Bolivia e il tenente che comandava il posto di frontiera decise di consegnare quei cinque disperati alle autorità cilene. Ci portarono a Santiago e, successivamente, con un aereo a Thaiti, poi a Parigi e quindi a Cuba…
Domanda: Quello che francamente stupisce è pensare che, dopo tutte queste traversie, sei tornato a combattere in Africa…
Pombo: Personalmente sono felice di aver contribuito alla lotta di liberazione anticoloniale del popolo dell’Angola; è per me motivo d’orgoglio che oggi l’Angola sia indipendente, con frontiere riconosciute a livello internazionale. Lo stesso vale per la Namibia che ha potuto liberarsi dal giogo del Sudafrica e dell’apartheid.
Gianni Sartori
* L’8 ottobre sarebbe poi diventato il “Giorno del Guerrigliero eroico” pensando, erroneamente, che quel giorno il Che fosse stato ucciso in combattimento (o per le ferite riportate). Solo dopo qualche tempo si apprese con certezza che, catturato vivo l’8, era stato assassinato il giorno seguente, il 9 ottobre.
**Doveva invece passare ancora qualche mese prima che mettessi le mani su “La guerra per bande”, una ristampa dell’ottobre 1967 della Mondadori (Oscar settimanali 132 bis, lire 350) di una introvabile edizione del 1961 (Edizioni del Gallo). Da segnalare che la traduzione era di Adele Faccio. Quanto al “Diario del Che in Bolivia”, quello con la prefazione di Fidel Castro, arrivò dopo (prima edizione: luglio 1968, prima edizione nell’Universale Economica: febbraio 1969) grazie al compagno editore Giangiacomo Feltrinelli.
***Nell’Esercito cubano, Pombo raggiunse il grado di generale di Brigata e venne decorato come “Héroe de la revolucion”. Il suo libro di memorie (“Pombo, un hombre dela guerrilla del Che”) venne pubblicato nel 1996.