Facciamoci gli auguri!
Pubblicato il 15 dic 2016
fonte: http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=26852
Vent’anni fa nasceva Rifondazione Comunista. Mi pare utile cogliere l’occasione di questo “compleanno” per interrogarsi a fondo, senza troppi fronzoli su questi vent’anni. Sul progetto di rifondazione, sui suoi successi e sui suoi fallimenti. In particolare per ragionare sulla utilità odierna del prospettiva e del partito della rifondazione comunista. Questo libro è un contributo utile per questa riflessione. Non ci troviamo dinnanzi alla storia di rifondazione comunista in senso stretto. Abbiamo piuttosto un insieme di riflessioni che forniscono materiali e considerazioni tanto sulla storia del partito quanto sul progetto della rifondazione comunista più in generale. Non avete quindi in mano un breviario o la vulgata ufficiale della storia di Rifondazione ma un libro denso di riflessioni, utili a ripensare il passato e a progettare il futuro. Riflessioni su cui si può concordare o meno ma che rappresentano il contributo che lo studioso Paolo Favilli ha voluto dedicare a questa esperienza collettiva. Del resto Gramsci sosteneva che la storia di un partito politico andava scritta non a partire dalle deliberazioni dei suoi comitati centrali ma a partire dalla sua incidenza nella storia del paese. Nel ringraziare Favilli per il suo lavoro, colgo l’occasione per aggiungere alcune considerazioni sulla storia che a mio parere sono utili alla riflessione odierna.
Liberamente comunisti
Rifondazione Comunista nasce all’inizio degli anni ’90, in concomitanza e in opposizione allo scioglimento del PCI. Quello scioglimento promosso dal gruppo dirigente e accettato dalla maggioranza degli iscritti. Il punto fondante è indubbiamente l’opposizione alla narrazione secondo cui “il comunismo è un cumulo di macerie da cui prendere le distanze il più rapidamente possibile”. All’origine di rifondazione c’è quindi l’idea che il comunismo e la sua storia siano una risorsa - indispensabile – per la trasformazione sociale. Una storia con cui fare i conti, da non assumere acriticamente, ma non da gettare nella pattumiera della storia. Da qui il nome – rifondazione comunista – in cui i due termini – indivisibili – si definiscono e si qualificano a vicenda. La convinzione che si può e si deve essere comunisti nonostante il fallimento del primo tentativo di fuoriuscita dal capitalismo e il fatto che lo stalinismo abbia negato in radice il comunismo e con esso le istanze di libertà e giustizia che animano i comunisti e le comuniste nella loro azione. Parimenti la convinzione che solo una rifondazione, solo un nuovo inizio possono dar conto del mantenimento dei valori di fondo del comunismo nella più netta discontinuità e rottura con lo stalinismo, cioè con il comunismo che nega se stesso.
Di questa nascita mi preme sottolineare un elemento paradossale, che ha a mio parere ha segnato rifondazione comunista in profondità per questi vent’anni. Nella vulgata dell’epoca, rifondazione era caratterizzata da conservatorismo e nostalgia. Quante volte ci siamo sentiti dire “sei ancora comunista?”, dove l’ancora segnava una inevitabilità del processo storico che solo l’ottusità – frutto di stupidaggine o testardaggine poco importa – poteva portare a non considerare. Paradossalmente però quelle decine di migliaia di compagni e compagne che non si iscrissero al PDS ma aderirono invece al Movimento della Rifondazione Comunista, produssero uno strappo fortissimo con un elemento di fondo della tradizione da cui provenivano: il fatto che il partito e in specifico chi lo dirige ha sempre ragione. Nell’Italia nichilista di oggi può apparire un discorso assurdo, ma alla fine degli anni ’80 non era così. Ci fu molto più stalinismo nei meccanismi di conformismo e di fedeltà al partito che hanno portato tanti compagni e compagne ad iscriversi al PDS che non nella scelta controcorrente di dar vita o di iscriversi a rifondazione comunista. Rifondazione nasce come atto soggettivo, nasce con una decisione individuale ed insieme collettiva, Rifondazione non è un atto di obbedienza, è un atto di coerenza in primo luogo con la propria coscienza, con la propria storia, con la rammemorazione – direbbe Benjamin – di chi si è battuto prima di noi. All’inizio di Rifondazione due erano – non a caso – gli slogan che ci definivano maggiormente: orgogliosamente comunisti e liberamente comunisti. Da qualsiasi parte la si guardi, Rifondazione Comunista è l’unica comunità politica italiana di questi vent’anni dove gli iscritti hanno deciso – orgogliosamente – la loro storia, sin dall’inizio degli anni ‘90.
Favilli cita “Buio a mezzogiorno” di Koestler. In quel libro si spiegano bene i meccanismi psicologici che hanno portato tante e tanti militanti comunisti a dare ragione al partito anche quando erano convinti che il partito sbagliasse. In quanto descrive Koestler vi è una doppia valenza. Da un lato la grandezza morale di militanti che preferivano mettere a tacere la propria individualità in nome di un progetto collettivo, che travalicava la singola vita di ognuno. Morire per la causa non è forse la forma più radicale di far prevalere il progetto collettivo sulla propria individualità? Dall’altra però Koestler ci mostra l’uso reazionario che di questa etica militante viene fatto dal vertice del partito, in cui la fedeltà viene usata come arma per mettere a tacere i militanti. Per obbligare i militanti a piegare la testa e a confessare crimini mai compiuti. Keostler ci mette quindi davanti alla dialettica che si determina tra “fedeltà alla causa” e “fedeltà al partito” o se volete al suo gruppo dirigente. A me pare che rifondazione comunista nasca da decine di migliaia di uomini e donne che hanno anteposto la “fedeltà alla causa” all’obbedienza alle gerarchie. Compagni e compagne in grado di rompere con la scelta del gruppo dirigente del partito proprio per rimanere fedeli alla causa. Questo è rimasto a mio parere un tratto caratteristico e assolutamente positivo di rifondazione comunista. La fedeltà ai massimi dirigenti ha ovviamente pesato nella storia di rifondazione ma non ha mai avuto un peso determinante nei momenti topici. Non a caso, quando dirigenti importanti e stimati come Garavini, Cossutta, Bertinotti e Vendola, hanno proposto un indirizzo politico che si discostava dalle ragioni di fondo della rifondazione comunista, sono stati democraticamente sconfitti. Non è un fatto da poco che una comunità politica sia capace di autodeterminarsi in questo modo. La comunità politica di Rifondazione Comunista è andata oltre lo stalinismo ma non per cadere nel plebiscitarismo e nel leaderismo: si è costruita attraverso la strutturazione della soggettività del suo corpo militante. La comunità di rifondazione comunista è orgogliosamente comunista non perché fedele ad un leader ma perché consapevolmente parte di una storia che comincia prima di noi e durerà dopo di noi: la storia degli umani tentativi di costruire una società di liberi e di eguali.
L’autonomia politica e culturale
La nascita di rifondazione, resa possibile dall’opposizione allo scioglimento del PCI, diventa però l’occasione di una unificazione del complesso delle forze che stavano alla sinistra del PCI. La confluenza dei compagni e delle compagne dello PdUP, di DP – che decisero in un congresso di sciogliere Democrazia Proletaria per confluire nel Movimento per la Rifondazione Comunista – e di molti altri compagni e compagne che singolarmente hanno aderito, è stato un elemento rilevante della costruzione di Rifondazione. Il secondo paradosso è quindi che chi è stato dipinto come nostalgico e continuista, in realtà è stato capace di dar vita ad una costituente che ha riaggregato tutte le forze della sinistra anticapitalista. Al contrario, Occhetto, che voleva fare la costituente della nuova sinistra, si è limitato nella sostanza a distruggere il PCI, costruendo un nuovo soggetto moderato a cui si sono iscritti una parte dei compagni e delle compagne che provenivano dal PCI, oltre a qualche personaggio in cerca d’autore. Questo vero e proprio “processo costituente e rifondativo”, ha a mio parere fatto maturare il secondo tratto distintivo di rifondazione: non solo il nome comunista ma la piena autonomia politica, culturale e organizzativa dal PDS e da quella che verrà poi chiamata sinistra moderata. Se la democrazia e l’autogoverno della comunità è la prima pelle di rifondazione, l’autonomia politica e culturale è la seconda. Autonomia che ovviamente non è conquistata una volta per tutte. Non a caso una serie rilevante di scissioni hanno avuto al centro proprio questo nodo dell’autonomia, prima dal PDS, poi dai DS, poi dal PD. Dalla scissione del ‘94 dei comunisti unitari a quella del ‘98 dei comunisti italiani a quella del 2009 di Vendola, questo è stato il nodo centrale della discussione e su questo la maggioranza di rifondazione comunista ha saputo tener duro. Non a caso Rifondazione non subisce alcun fascino dal processo di aggregazione del Nuovo Ulivo: sappiamo troppo bene che la strada per costruire l’alternativa passa per la rottura con il neoliberismo, comunque declinato.
Dentro i movimenti
Rifondazione però non è stato solo un partito comunista autonomo dal centro sinistra: è stato sin dall’inizio dentro i movimenti di massa, così come essi erano. Nel 1992 – 1993, vi furono in Italia grandi manifestazioni operaie che si produssero in grandi contestazioni alle organizzazioni sindacali. Queste avevano infatti firmato accordi in cui prima veniva accettato il taglio della scala mobile e poi il meccanismo della concertazione. Di quella fase ricordo benissimo le contestazioni dei manifestanti nei confronti dei dirigenti sindacali che - sui palchi – dopo i primi episodi, si presentavano regolarmente protetti da scudi di plexiglass. Rifondazione Comunista fu dentro al movimento fino in fondo e ricordo distintamente il segretario nazionale Garavini – a lungo dirigente della Cgil – difendere le contestazioni, così come ricordo benissimo che Rifondazione era in prima fila nell’organizzare lo lotte e le contestazioni. Questa capacità di stare dentro il movimento, ebbe a Genova un suo punto di sviluppo significativo e acquistò una centralità inedita, ma era presente sin dai primi passi di rifondazione.
Rifondazione nasce quindi in opposizione allo scioglimento del PCI ma assume da subito tre caratteristiche di fondo: democrazia interna, autonomia politica, internità ai movimenti di massa. Nel bene e nel male queste tre caratteristiche rappresentano il sostrato di fondo, di identità profonda di rifondazione. A volte più accentuate, a volte contraddette, ma alla fine queste tre sono le ragioni di fondo del Partito della Rifondazione Comunista.
Nella seconda repubblica
Rifondazione Comunista affronta così i grandi passaggi, che a partire dall’inizio degli anni ’90, trasformano radicalmente il nostro paese. Lo fa, come recita il titolo di questo libro, in direzione ostinata e contraria, perché Rifondazione è stata l’unica forza politica in radicale opposizione al processo costituente della Seconda Repubblica. E’ bene sottolineare come la costruzione della seconda repubblica sia stata una vera e propria rivoluzione conservatrice in cui le inchieste giudiziarie contro le tangenti sono state utilizzate come una clava per determinare una svolta reazionaria sul piano sociale, istituzionale ed ideologico. Se della prima repubblica i comunisti erano soci fondatori e i fascisti erano esterni all’arco costituzionale, nella seconda questo dato viene rovesciato.
Rifondazione si trova quindi ad operare in un terreno ostile, radicalmente avverso, caratterizzato da tre elementi:
In primo luogo l’anticomunismo e il revisionismo storico. La seconda repubblica è il terreno di riscrittura della storia italiana, in cui si demolisce il ruolo fondante della resistenza e dell’antifascismo quale base della convivenza civile. Questa azione di riscrittura della biografia del paese avviene con la collaborazione determinante del centro sinistra. L’inizio dell’equiparazione tra partigiani e repubblichini, la condanna del comunismo e l’accostamento tra foibe e lager sono tutti elementi bipartisan.
In secondo luogo il neoliberismo. I governi Amato e Ciampi dell’inizio degli anni ’90 sono i governi in cui le politiche neoliberiste cominciano a dominare il panorama politico italiano, in cui la dinamica internazionale fa premio sui meccanismi interni di costruzione clientelare del consenso. Il centro sinistra si farà interprete primo del neoliberismo o – se volete – del socialiberismo.
In terzo luogo il bipolarismo, con l’abolizione della legge elettorale proporzionale e l’introduzione delle leggi elettorali maggioritarie. Achille Occhetto non verrà ricordato solo come colui che ha dato un contributo fondamentale alla distruzione del più grande partito comunista occidentale, ma anche come colui che appoggiando il reazionario Mario Segni ha demolito il sistema proporzionale introducendo in Italia il bipolarismo.
L’intreccio tra questi tre elementi da luogo ad una vera e propria controrivoluzione. Vi è infatti una coerenza fortissima tra l’assunzione del neoliberismo come nuova religione civile basata sulla centralità dell’impresa e la demolizione della resistenza e del comunismo al fine di minare le basi materiali della Costituzione repubblicana. Così come vi è una relazione fortissima tra politiche neoliberiste e bipolarismo.
Il bipolarismo
Dei tre elementi che hanno caratterizzato la seconda repubblica, quello che ha avuto un peso negativo maggiore sulla vita di Rifondazione Comunista è il bipolarismo. Per un partito comunista infatti è normale lottare contro l’anticomunismo così come contro il neoliberismo. Ci si può trovare in condizioni più o meno favorevoli ma queste due battaglie sono fisiologiche.
La questione del bipolarismo invece è diversa, perché non incide solamente sui rapporti di forza ma modifica radicalmente il ruolo della politica nella vita sociale, cambia radicalmente il terreno di gioco su cui avviene la partita politica. Il bipolarismo tende a cancellare lo spazio politico in cui può crescere una forza di sinistra alternativa.
Il bipolarismo è fatto apposta per permettere ai poteri forti di comandare sempre – qualunque sia il governo in carica – e per demolire la sinistra di alternativa. In un sistema bipolare i moderati valgono doppio, prima e dopo le elezioni. Valgono doppio prima, perché la contesa tra i due schieramenti avviene sulla mitica conquista del centro. Tutta la narrazione elettorale viene costruita sulla conquista degli elettori centristi del blocco avversario e i programmi vengono costruiti su questo. Parallelamente i centristi valgono doppio anche dopo le elezioni. Basta che qualche deputato centrista si sposti e voti con l’altro schieramento “et voilà”, il gioco è fatto! Lo si è visto nel parlamento italiano durante il governo Prodi, quando i senatori centristi decidevano la linea concreta della maggioranza dosando con accortezza presenze e assenze in aula. Lo si è visto con la Presidenza Obama: Anche quando il partito democratico aveva la maggioranza parlamentare, Obama non ha potuto realizzare la riforma sanitaria promessa, perché ritenuta troppo “socialista” da una parte del suo partito. Non sfuggirà a nessuno che – in un sistema bipolare – una maggioranza parlamentare per decidere il mantenimento delle truppe in Afganistan è assai più facile da trovare che una maggioranza per abolire la legge 30 e scontrarsi frontalmente con Confindustria. Qualsiasi sia lo schieramento che ha vinto le elezioni.
Il bipolarismo è quindi un sistema che distrugge la politica, nel senso che i cambiamenti di quadro politico diventano molto più semplici proprio perché relativamente indolori per i poteri forti. Per questo stesso motivo il bipolarismo è un sistema che tende a distruggere la sinistra di alternativa. Prendiamo il caso concreto di Rifondazione comunista. Ad ogni elezioni rifondazione si è trovata davanti ad un dilemma pesantissimo: fare l’accordo con il centro sinistra per poi trovarsi con una gestione moderata e del tutto insufficiente rispetto alla bisogna. Oppure non fare l’accordo con il centro sinistra ed essere accusata di fare il gioco delle destre, di favorire Berlusconi. In questi vent’anni, rifondazione comunista si è trovata sempre davanti questa drammatica alternativa che ne ha in continuazione sfregiato il progetto politico. Non sfuggirà a nessuno che tutte le scissioni di rifondazione sono avvenute sulla questione del governo, cioè sulla opportunità o meno di partecipare alla maggioranza o comunque di partecipare allo schieramento di centro sinistra. Le scissioni da destra sono avvenute quando rifondazione stava all’opposizione del centro sinistra. Le scissioni da sinistra sono avvenute quando rifondazione era nella maggioranza con il centro sinistra. Tutte, ripeto tutte, le scissioni sono state causate dal bipolarismo. Nel bipolarismo, una forza comunista come rifondazione è fatta oggetto di domande politiche impossibili, di veri e propri “ossimori politici”, di cui la richiesta di “tirare la corda senza romperla” è quella classico. Il sistema bipolare è quindi a mio parere il vero nodo politico che ha messo in crisi il progetto politico di rifondazione comunista e la frantumazione politica a sinistra è data principalmente da questo scoglio. Regolarmente la sinistra, quando pure propugna progetti del tutto simili, si divide tra chi ritiene necessario “andare da soli”, chi ritiene necessario una qualche forma di accordo per “battere le destre” e chi getta il cuore oltre l’ostacolo e si propone di “andare a governare”, illudendosi di riuscire a trasformare il principio dell’alternanza in un principio di alternativa. Se rifondazione comunista in questi vent’anni non è riuscita ad affermarsi come un punto di riferimento stabile del panorama politico italiano, è dovuto principalmente al quadro bipolare. Non ne ho ovviamente la controprova ma sono abbastanza convinto che se in Italia fosse rimasto un sistema proporzionale, molto probabilmente Rifondazione Comunista non avrebbe partecipato ad un governo nazionale, non avrebbe avuto tante scissioni e oggi avrebbe oltre il 10% dei voti. In un sistema proporzionale cioè Rifondazione Comunista avrebbe potuto accumulare forze, ricostruendo, a partire da una battaglia di opposizione, un blocco sociale dell’alternativa. Come prova a fare la Linke. A scanso di equivoci, vorrei che fosse chiaro che non sto dicendo che rifondazione comunista ha risolto i suoi problemi politici o che ha risolto in modo fecondo il nodo teorico della rifondazione comunista. Sto solo dicendo che al netto della sua insufficienza, rifondazione è stata terremotata dal sistema elettorale. Non è un caso che rifondazione non è mai andata alle elezioni due volte nello stesso modo.
Gli errori
Come ho detto, le considerazioni molto nette sul ruolo negativo del bipolarismo non significano che rifondazione comunista non ha fatto errori politici e che è stata travolta da un destino cinico e baro. Penso che rifondazione ha fatto errori e – per stare al periodo preso in considerazione da Favilli – in particolare ne abbia fatto uno gravissimo nel percorso che ci ha portato alla partecipazione al Secondo Governo Prodi. Avendo io fatto il Ministro in quel governo, è del tutto evidente che sto parlando di errori di cui – in quanto membro del gruppo dirigente centrale – porto a pieno la responsabilità.
Per inquadrare questo problema sul piano storico, mi pare necessario evitare di leggere la segreteria di Bertinotti come un tutt’uno unitario. La forte personalità e le capacità di Fausto hanno caratterizzato un’epoca di Rifondazione ma questo non vuol dire che la linea politica sia sempre stata la stessa e nemmeno che la cultura politica sia stata la stessa. La segreteria di Bertinotti si è caratterizzata progressivamente sul terreno dell’autonomia di Rifondazione Comunista dal centro sinistra. Questa autonomia, che ha portato alla rottura del ’98, si è solidificata nella teorizzazione delle “due sinistre”. A me quella lettura è sempre parsa assai utile. Permetteva di smarcarsi dalla discussione un po’ stucchevole se la sinistra moderata andava considerata di sinistra oppure no e – nello stesso tempo – segnava con evidenza una differenza di prospettive – non solo tattiche - tra noi e il centro sinistra. Questo indirizzo politico portato avanti con nettezza da Bertinotti, in cui l’autonomia dal centro sinistra si fondeva con una cultura politica aperta ai movimenti – maggioritaria nel partito – ha permesso a rifondazione di trovarsi con le carte in regola a Genova, nel 2001. All’inizio del 1999 ci schierammo nettamente contro la guerra in Jugoslavia, così come ci battemmo contro le privatizzazioni e contro le modifiche della Costituzione varate a maggioranza dal governo di centro sinistra. A Genova fummo fino in fondo dentro il movimento, agendo con forza contro i tentativo di ridurlo ad un problema di ordine pubblico. Abbiamo in quella fase aperto non solo un canale di comunicazione ma anche di pratiche comuni con il mondo dell’associazionismo e dei centri sociali. E’ stata – io credo – la stagione più feconda di rifondazione Comunista. Sia come partito che come progetto politico generale.
In questa situazione abbiamo avuto un primo limite: non siamo stati in grado di proporre e di costruire con il movimento una sua sedimentazione. I forum sociali sono diventati rapidamente degli “intergruppi” e pur dicendo a parole che “lo sbocco del movimento è il movimento stesso”, non siamo riusciti a declinare le forme per realizzare questo obiettivo. Dopo Genova, non è nato nulla di paragonabile a quanto nacque in Italia dopo il ‘68/69 in fabbrica e sul territorio. Eppure l’America Latina è li a dimostrare che una sedimentazione di movimento, la costruzione di “istituzioni di movimento” non solo era necessario ma anche possibile. Così come abbiamo sbagliato a non porre li, in quel contesto, il problema della costruzione di una sinistra di alternativa più ampia di rifondazione. Se l’idea della Federazione della Sinistra – cioè di una rete di relazioni stabili tra soggetti politici, culturali e sociali – l’avessimo proposta negli anni dopo Genova, probabilmente avremmo fatto qualche deciso passo in avanti.
A partire da quella insufficienza siamo arrivati a veri e propri errori politici. Il primo e principale – il vero e proprio punto di svolta della linea politica – avvenne sulla gestione dei risultati del referendum sull’estensione dell’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il 16 giugno del 2003, alle 15, mentre si chiudevano le urne, era chiaro che non si sarebbe raggiunto il quorum. Undici milioni di italiani avevano però votato, in larga parte contravvenendo alle indicazioni dei loro partiti e in ogni caso in completa controtendenza con l’ideologia neoliberista dominante anche nel centro sinistra. Bertinotti, prima di una qualunque riunione di valutazione, commentò immediatamente questi risultati con i giornalisti, affermando che si trattava di una sconfitta, dovuta alla nostra incapacità di fare di una battaglia giusta un grande fatto di opinione pubblica. Conseguentemente alla sottolineatura della sconfitta, gli undici milioni di voti non divennero il punto di partenza per coagulare una sinistra di alternativa ma lo sfondo su cui aprire le trattative con il centro sinistra. Nel ragionamento di Bertinotti – accettato dalla maggioranza del gruppo dirigente del partito – infatti il centro sinistra avrebbe dovuto tenere conto di quegli undici milioni di voti che rappresentavano la maggioranza del suo elettorato. Guarda caso, il giorno dopo sul Corriere della Sera, Bassolino affermò la necessità di dar vita ad un vero e proprio patto di governo con Rifondazione Comunista.
Da li cominciarono le trattative per le regionali che ci portarono nel 2005 a fare accordi da tutte le parti e ponemmo così le premesse per il patto di governo dell’anno successivo. A partire dalla gestione del referendum del 2003 per arrivare all’accordo di governo del 2006 è posizionato a mio parere un pesante errore politico dovuto al cambio di linea. Lo dico assumendomi in pieno la responsabilità di non aver capito fino in fondo l’errore che stavamo facendo e di non essermi di conseguenza opposto allo stesso. In primo luogo cambiammo radicalmente linea politica senza darne nemmeno una spiegazione. Siamo passati dal sostenere che “lo sbocco del movimento è il movimento stesso” a sostenere nei fatti che “lo sbocco del movimento è il cambio di governo”. Si tratta di una svolta che contraddiceva – anche se non nel linguaggio che rimaneva “movimentista” – quanto avevamo sostenuto negli anni precedenti. A questo primo errore se ne è sommato un altro – serissimo – di valutazione dei rapporti di forza. Abbiamo teorizzato che la “sinistra moderata “ aveva sostanzialmente abbandonato le politiche neoliberiste e abbiamo conseguentemente pensato che sarebbe stato possibile aprire spazi ad una azione del movimento per modificare radicalmente le politiche economiche del governo. Abbiamo sopravvalutato drammaticamente la possibilità di dar vita ad un governo che fosse permeabile alle istanze del movimento.
A ben vedere i due errori compiuti sono le due facce della stessa medaglia. Nella non sufficiente attenzione alla sedimentazione del movimento vi è al fondo una sopravvalutazione del movimento in quanto tale, come se il movimento in se fosse in grado di prodursi – automaticamente – come il becchino del capitale. O se volete dirla in un altro modo che il capitalismo produca già bell’e pronto il soggetto rivoluzionario in grado di superarlo. Una sorta di autonomia del sociale assolutizzata nella sua capacità trasformatrice.
Dall’altra, nella sopravvalutazione dei rapporti di forza e nel puntare tutto sul governo per aprire un nuovo spazio politico, vi è l’errore simmetrico: una assolutizzazione del ruolo politico istituzionale nella dinamica della trasformazione. Si potrebbe qui ravvisare l’errore dell’autonomia della politica, della sopravvalutazione del peso che la dinamica politica può avere per sbloccare la situazione del paese. Questa autonomia della politica fu praticata fino in fondo, anche quando si arrivo alla divisione dal centro sinistra. Aver costruito la lista arcobaleno come puro elemento di aggregazione politica e aver deciso nei confronti del centro sinistra la linea della “separazione consensuale”, è stato l’ultimo atto di questa linea di autonomia della politica che aveva orami perso qualunque relazione con il paese reale. La separazione consensuale aveva infatti un problemino: uno dei due coniugi chiedeva il voto in nome di un interesse generale – la sconfitta di Berlusconi – mentre l’altro coniuge chiedeva un voto per se, per tenere in vita la sinistra. La gente non capi bene cosa serviva tenere in vita questa sinistra: da un lato, in maggioranza non eravamo riusciti a cambiare significativamente l’indirizzo del governo. Dall’altro, nel sistema bipolare, con premio di maggioranza, il voto alla sinistra arcobaleno non serviva nemmeno a battere Berlusconi.
I risultati sono noti: nel 2008 la sinistra ha avuto il risultato peggiore di sempre, nonostante avesse una significativa esposizione mediatica e una discreta quantità di risorse economiche a disposizione.
In conclusione
Dopo queste riflessioni che sono già andate molto oltre il compito di una prefazione, voglio sottolineare solo tre elementi.
1) Rifondazione comunista ha pagato pesantemente la sconfitta del 2008 e la successiva scissione. E’ oggi duramente provata e con un peso politico assai ridimensionato. Il punto è però che dal 2008 è cambiato tutto. Il sopraggiungere di una pesantissima crisi del capitalismo riapre totalmente la partita della trasformazione sociale. La cosa certa è che da questa crisi non se ne esce al centro. Si ripresenta oggi l’alternativa socialismo o barbarie e della barbarie ne abbiamo ogni giorno pesanti anticipazioni. Io credo che il ruolo di rifondazione, a partire dalla sua autonomia politica, sia oggi indispensabile per costruire non solo una protesta contro ma anche una alternativa a questa capitalismo in crisi. Indispensabile ma non sufficiente. Per questo avanziamo la proposta dell’unità della sinistra di alternativa e abbiamo fatto con la Federazione della Sinistra un primo passo in questa direzione. Il punto è quindi superare la sindrome della sconfitta che abbiamo subito nella fase precedente per inserirsi a pieno nella costruzione di un movimento che si ponga esplicitamente il tema dell’uscita a sinistra dalla crisi. Essere cioè in grado – nel contesto della crisi – di praticare una rifondazione della rifondazione dentro la costruzione di un movimento esplicitamente antiliberista.
2) Abbiamo detto che la crisi del capitalismo apre la possibilità di costruire un movimento antiliberista e tendenzialmente anticapitalista con basi di massa. Penso che occorra lavorare con forza alla costruzione e all’unificazione di questo movimento con una grande avvertenza. La costruzione di “istituzioni di movimento” , di forme di organizzazione democratica in grado di costituire il movimento come soggetto politico mi pare un punto decisivo. Abbiamo proposto nei mesi scorsi di dar vita ad una Costituente dei beni comuni e del lavoro. Non mi interessa il nome ma la sostanza. La sostanza è che occorre lavorare per costruire un movimento che sia in grado di durare nel tempo. Così come una seconda caratteristica del movimento da costruire mi pare sia quella dell’autonomia dal quadro politico. Per evitare che il movimento venga diviso e rischi la distruzione ad ogni passaggio elettorale, occorre decidere unitariamente e consapevolmente che la soggettività politica del movimento non deve essere sovra determinata dai passaggi elettorali. Strutturazione del movimento e sua autonomia dal quadro istituzionale, mi paiono punti decisivi per evitare di ripercorrere nel futuro errori già fatti nel passato e per costruire una soggettività di massa che possa superare in avanti l’attuale – pesantissima – crisi della politica. Del resto il movimento sindacale ha dato il meglio ed ha svolto un ruolo politico enorme proprio quando ha costruito la sua piena autonomia dal quadro istituzionale.
3) Nel quadro di una battaglia di fondo contro il bipolarismo, occorre costruire un profilo politico di Rifondazione Comunista che sia meno pesantemente determinato dal tema delle elezioni. Occorre costruire una cultura politica che veda nel passaggio elettorale uno dei punti dell’azione politica, che si affianca all’attività di costruzione delle lotte, di solidarietà materiale e di mutualismo, di critica dell’economia politica. Occorre cioè costruire una identità del progetto politico di rifondazione comunista che riesca ad avere un respiro strategico e di lavoro politico che vada oltre il singolo passaggio elettorale. Fin quando resterà, il sistema elettorale bipolare opererà in forma pesantemente distorsiva di qualunque progetto di alternativa. Occorre saperlo ed attrezzarsi per non esserne travolti. Questo chiede una modifica significativa del modo di essere di Rifondazione. Non si tratta di scegliere tra partito militante e partito di massa ma di costruire una partito di massa in quanto interviene concretamente nella quotidianità della vita degli uomini e delle donne. Più la crisi andrà avanti e più questo vorrà dire essere in grado di dare una spiegazione della realtà alternativa alla vulgata del pensiero unico, di organizzare lotte e forme di autotutela popolare. Occorre cioè essere in grado di proporre un comunismo che non si presenti semplicemente nelle forme codificate – e logorate – della politica così come oggi è intesa. Occorre allargare il significato della parola politica e rifondazione deve sperimentare questo percorso con forza.
Da ultimo non voglio esimermi dalla domanda di fondo: ma perché comunisti? A mio parere ci sono più ragioni oggi che al tempo di Marx per porre la necessità del comunismo. Di fronte ad un capitalismo che precarizza e sfrutta il lavoro, emargina chi non lavora, distrugge l’ambiente e produce guerre tra i poveri e guerre guerreggiate, mi pare che il tema della gestione democratica della libertà, dell’eguaglianza e della gestione razionale delle risorse sia il tema all’ordine del giorno. Taluni pensano che questa prospettiva non necessariamente debba chiamarsi comunista. Al contrario io penso che vi sia una intima relazione tra la distruzione delle parole, dei simboli e la distruzione della sostanza. Non è un caso che la destra americana quando protestava contro la riforma sanitaria portava in giro cartelli su cui stava scritto “Obama is comunist”. Così come non è un caso che Berlusconi utilizzi a piene mani l’accusa di comunismo. Se permetti l’identificazione tra il comunismo e il male assoluto, visto che il comunismo è stato il punto più alto della lotta delle classi subalterne, ti condanni all’afasia e all’impotenza. Anche la più blanda riforma può finire sotto accusa. Se non rivendichi tu l’appartenenza a quella storia, al fine di poter porre tu il tema della rifondazione comunista, saranno i tuoi avversari ad appiattirti sulla loro descrizione delle pagine peggiori della storia comunista, per dimostrare che è bene lasciare il sistema così com’è. Per poter parlare e non essere parlati, occorre costruire un proprio senso di se, della propria storia e della propria prospettiva. Nella consapevolezza che il tema dell’estensione della democrazia formale e sostanziale e il tema del comunismo, tendono oggi – a mio parere – a coincidere. Come dicevamo all’inizio: liberamente comunisti.
Comments Closed