Straordinario incontro con Davide Grasso, 1 Giugno, ore 20:45 – Sala Anziani, Palazzo Moroni, Padova. Oltre l’autore interverranno Paolo Benvegnù (Rifondazione), Floriana Rizzetto (ANPI), Giancarlo Garna(Archeologo, vincitore del premio PersonOfTheYear 2017 promosso dall’Osservatorio Italiano Archeomafie), Giuristi Democratici, Spazio Catai.
“Rojava. In curdo vuol dire “ovest”, ma per arrivarci dobbiamo andare verso est, giungere nelle terre che un tempo chiamavamo Asia minore.
«Rojava» è il Kurdistan siriano, dove dal 2011 è in corso una rivoluzione, il grande esperimento delle comuni e del «confederalismo democratico». Un movimento di liberazione egualitario, libertario e femminista, ispirato al pensiero di Abdullah Öcalan e cresciuto come un bosco in pieno deserto, nel più devastato – e strategico – teatro di guerra del pianeta. Un processo sociale accerchiato da forze reazionarie e sanguinarie: l’Isis, il regime di Assad a Damasco e il regime del caudillo turco, Erdogan, appena oltre il confine.
Nel 2014 abbiamo trepidato per Kobane, città assediata dall’Isis e difesa da forze popolari chiamate YPG e YPJ. Abbiamo visto le immagini di donne guerrigliere sorridenti scalzare dai media quelle dei tetri tagliagole di Daesh, e poi la riscossa: da Kobane, divenuta la «Stalingrado del Medio oriente», è partita una controffensiva che ha meravigliato il mondo. Meno di tre anni dopo è stata liberata Raqqa, sedicente «capitale» dello Stato islamico.
Come non accadeva dai tempi della guerra civile spagnola, uomini e donne da tanti paesi hanno deciso di raggiungere la Siria e partecipare alla rivoluzione, armi alla mano. Uno di loro era Davide Grasso, militante del centro sociale torinese Askatasuna e del movimento No Tav. A fargli prendere la decisione è stata la strage al Bataclan di Parigi, il 13 novembre del 2015.
Hevalen, che in curdo significa «gli amici», «i compagni», è la storia – ibrida, ruvida, entusiasmante – del suo viaggio, della sua guerra, delle contraddizioni che ogni rivoluzione si porta dentro e deve affrontare.
Davide Grasso ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del Nord. Nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere l’Isis.”
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Il Medio Oriente tra guerra globale e geopolitica
Fonte: http://www.globalproject.info/it/produzioni/il-medio-oriente-tra-guerra-globale-e-geopolitica/21459
Nel corso della terza puntata di PRESSto (Perugia 12-14 aprile 2018), è stato affrontato il tema della guerra e dei conflitti globali. La trasmissione è andata in onda il giorno dopo l’attacco aereo in Siria fatto da Usa, Gran Bretagna e Francia. Tra gli ospiti intervenuti, c’è stata Chiara Cruciati, caporedattrice dell’agenzia di informazione Nena News ed esperta di Medio Oriente. A poco meno di un mese dall’attacco, con operazioni militari che si susseguono in tutta l’area, il contesto geopolitico illustrato da Chiara Cruciati aiuta a orientarci rispetto alle dinamiche che quotidianamente si susseguono e cambiano di segno, in Siria e in tutto il Medio Oriente. Trascrizione dell’intervista a cura di Rossella Puca.
In Medio Oriente quel che succede è molto confuso e quel che accade è sempre riportato in maniera parziale. Cosa è successo questa notte in Siria? (13 aprile 2018 ndr).
Quanto accaduto il 13 aprile 2018 si inserisce in un processo molto più ampio, che non deve limitarsi ai sette anni della guerra, in Siria ma deve invece prendere in considerazione quanto accaduto in Medio Oriente negli ultimi due decenni. Si sta tentando di ridefinire i confini mediorientali, come già verificatosi nel 2003 in Iraq, tra l’altro con gli stessi attori e le stesse modalità, anche se questa volta in Siria.
Nei giorni precedenti all’attacco, Trump aveva già minacciato di voler utilizzare la forza contro il governo di Damasco, mentre le varie diplomazie cercavano di frenare gli intenti bellici di Trump, di Macron e della May.
La notte del 13 aprile 2018 alle ore 3 sono partiti 103 missili che hanno colpito tre siti: un centro di ricerca, un centro di comando ad Homs, ed un altro sito considerato dal Pentagono luogo di stoccaggio di armi chimiche. Gli Stati Uniti d’America consideravano tutti e tre i siti, luoghi clandestini in cui si producevano armi chimiche. L’intervento della presidenza francese a riguardo ha dichiarato come tale attacco abbia consentito la distruzione dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad, evidenziando una sorta di necessità dell’azione.
C’è da dire però che già nel 2014 l’ONU, dopo mesi di lavoro, aveva certificato lo smantellamento dell’arsenale chimico in mano al governo siriano.
Nel panorama tecnico-tattico sia la Russia che l’Iran hanno condannato aspramente l’azione delle tre potenze occidentali, promettendo delle risposte.
Si nota come i 3 siti colpiti non avevano in sé la presenza dell’esercito russo e come l’attacco di Trump sia avvenuto dopo una comunicazione col Cremlino. Si constata dunque un’escalation frutto di un controllo precedente: ciò ad ogni modo non significa che non vi è una situazione ad alto rischio.
Più che voler scatenare un conflitto aperto con la Russia, Trump ha voluto inoltrare un messaggio chiaro al fronte di Assad: la guerra siriana non può finire come sta finendo adesso.
Negli ultimi anni, dopo l’intervento della Russia in Siria, il presidente Assad ha riacquistato nuova forza e riconquistato tantissimi territori; sia l’Isis che le opposizioni di matrice islamista sono state limitate in presenza. Questo elemento faceva immaginare una vittoria finale del regime, del governo siriano.
Questa effettiva vittoria non è invece vista di buon occhio da chi da anni cerca di frammentare il Paese. Trump, tramite questo attacco, dice apertamente alla Russia che vuole tornare sul versante della Siria.
Un altro elemento risulta invece ancor più drammatico: non esiste più una legalità internazionale. Da molti anni a questa parte si assiste ad interventi unilaterali, senza alcun mandato ONU. Queste azioni, oltre ad inserirsi al di fuori del diritto internazionale, hanno come base prove che non vengono realmente mai fornite. Con la venuta meno della legalità internazionale, come avviene in Israele, in Turchia, in Usa e in questo caso in Siria, non esistono più strumenti per regolare i conflitti globali.
Alla luce di questi fatti, anche appunto al nominato interventismo russo e le mire espansionistiche russe di Putin, come cambiano gli assetti geopolitici nella zona mediorientale?
La Russia si è espansa molto in Medioriente. Putin, lungi dal denominarlo salvatore della Siria, è anch’esso mosso dalle medesime ragioni che muovono gli altri attori, sia regionali che internazionali, ossia una politica imperialista, di controllo e di presenza in un’area strategica per eccellenza: il Mediterraneo. Basti pensare alle tanti basi russe sparse già in tutta la costa siriana che affaccia sul Mare Nostrum. Il presidente russo ha – tra l’altro – stretto un’alleanza strategica con l’Iran, di certo il paese più consistente e strategico al momento.
Putin adopera però una politica da fine stratega, muovendosi molto sul piano diplomatico. In occasione dell’attacco missilistico ha affidato ai suoi Ambasciatori e al Ministro della Difesa il compito di dire che ci sarà una risposta. Quel che invece lui ha personalmente rilasciato alla stampa sono le dichiarazioni sulla necessità di ritorno alla diplomazia, sulla necessità del dialogo. Un Putin che non si mostra come incendiario, ma come pompiere.
Appare chiaro che la Russia non risponderà sul piano militare, ma resterà a tutelare i propri interessi considerando che – ad oggi – l’ago della bilancia pende proprio a favore dell’Iran e della Russia.
Come giornalista hai seguito fin dal 2014 quel che è accaduto in Kurdistan, quali sono le differenze tra l’assedio di Kobane e la difesa di Afrin?
Afrin e Kobane sono entrambe parte del Rojava, il Kurdistan siriano. I protagonisti sono i medesimi: il popolo curdo e l’Unità di Difesa Popolare. La differenza sta nel considerare che Kobane è la città che ha portato a conoscenza a livello mondiale la resistenza curda, ma anche tutto il progetto che c’è dietro: il confederalismo democratico.
Le unità curde si erano trovate dinanzi a milizie islamiste che avevano occupato il territorio, azione che ha permesso di scatenare la solidarietà internazionale, anche se spesso espressa in forma superficiale.
Ad Afrin le Unità di Difesa Popolare, le amministrazioni autonome e la popolazione civile si sono comunque scontrate con le milizie islamiste, assoldate dalla Turchia, che erano in effetti lì presente. Questo elemento ha portato ad un completo stravolgimento della narrazione internazionale. A Kobane si è riscontrato un appoggio incondizionato al popolo curdo ad Afrin no; quel che è cambiato nei fatti è stato l’approccio esterno che ha permesso alla Turchia, in poco più di un mese, di distruggere un intero cantone, sfollando centinaia di migliaia di persone nel pieno silenzio internazionale.
Tra le due città non esiste una differenza dal punto di vista ideologico-politico, quanto piuttosto di narrazione.
La Turchia intanto prosegue, col benestare della Russia, continuando l’operazione che è denominata “Ramoscello d’ulivo”; dopo Afrin tenterà di sfondare verso est.
Quello a cui si assiste è una vera e propria ridefinizione dei confini e delle zone di influenza, che in questo caso mette in pericolo un progetto politico, unica e vera produzione politica realmente democratica. Un modello non solo per la regione o per il Medioriente, ma per il mondo intero.
Il ruolo dell’Italia. Le dichiarazioni di Gentiloni.
Il Governo Italiano si è comportato forzatamente in termini neutrali. Il timore sta nel pensare che in presenza di un governo effettivo e non limitato nei poteri come l’attuale provvisorio, avremmo preso parte nel conflitto come in passato.
Il supporto logistico per l’Italia sarebbe risultato praticamente obbligatorio per la presenza delle basi Nato e basi Usa sul territorio italiano. Sulla questione il panorama di assetti politici italiani sconvolge: addirittura la Lega assume posizioni di pace, spinta ovviamente dalla vicinanza alla Russia, più che da altro.
In presenza di un conflitto globale contro una popolazione civile, con rammarico si prende atto della grande assenza della sinistra. Non è avvenuto quanto verificatosi nel 2003 in occasione della guerra in Iraq, ossia la creazione e il coinvolgimento dei movimenti per la pace, se non per talune eccezioni che si sono spese in queste settimane (Rete della pace, Rete per il disarmo).
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