Giorgia d’Andrea – “Lavoro e diritto”
Inquadrare e gestire scientificamente il tema della logistica è molto difficile data l’enormità e la complessità del tema appunto e delle connesse problematiche, giuridiche, la migliore dottrina parla di “emergenza sociale del diritto del lavoro, in quanto qui sta tutto il diritto del lavoro contemporaneo” e di diritto sindacale, queste ultime date anche dal fatto che il mondo sindacale non è stato in grado di capire la deriva che avrebbe preso il mondo delle cooperative a far data dagli anni 2000.
Intanto alcuni dati forniti dal Ministero del lavoro e dall’ispettorato del lavoro nel 2015, non ve ne sono di più recenti: il settore della logistica, che è da sottolineare è in continua espansione, influisce sul pil per il 14% occupando all’incirca 1 milione di lavoratori e 160.000 aziende, si connota per un ampio tasso di illegalità e connivenza con le associazioni mafiose, al punto da risultare il comparto con il più alto tasso di infrazioni riscontrate dall’ispettorato del lavoro, pari al 66,8% sui controlli effettuati, più che nell’edilizia e nell’agricoltura.
Le pratiche illegali sono molteplici e si traducono, solo per citarne alcune, nell’utilizzo fraudolento del cambio appalto e nella riduzione del rischio e della responsabilità di impresa attraverso l’applicazione del contratto più favorevole per quest’ultima, il noto caso dei contratti pirata, ossia quegli accordi “negoziati e poi firmati da sindacati minori, privi di una reale rappresentatività, e da compiacenti associazioni imprenditoriali, con la finalità, aperta e dichiarata, di costituire un’alternativa rispetto al contratto nazionale, in modo tale da consentire al datore di lavoro di assumere formalmente la posizione giuridica e – quindi i conseguenti vantaggi – di chi applica un contratto collettivo” (Maresca); nella violazione della normativa antinfortunistica, nell’interposizione illecita, nella filiera dei subappalti fino a 4 livelli, nell’utilizzo fraudolento dell’art. 6 l. 142/01, sul quale tornerò in seguito.
Si hanno però anche pratiche lecite, ossia ammesse dall’ordinamento, attraverso le quali attuare un vero e proprio sfruttamento del lavoro, come ad esempio l’utilizzo del contratto collettivo più favorevole all’impresa, ma meno favorevole per i lavoratori, tra quelli leciti, la flessibilità oraria portata agli estremi.
Una fotografia del lavoratore tipico è importante ai fini di quello che dirò in seguito: è prevalente l’impiego maschile, straniero, a tempo determinato, anche se comunque si contano molti tempi indeterminati, moltissimi di coloro che sono alle dipendenze delle cooperative sono anche soci delle stesse, e anche sulla questione della fittizietà del rapporto sociale tornerò in seguito, inquadrato ad un livello basso anche se con il tempo ha acquisito alta professionalità.
Ciò detto, per addentrarci, in estrema sintesi, nell’analisi delle problematiche giuridiche connesse al tema di cui stiamo trattando, pare utile procedere tenendo distinti i due filoni nei quali si può pensare di articolare il settore logistica, ossia: la movimentazione delle merci finalizzata alla produzione e alla commercializzazione e il trasporto su gomma, lungo/breve, pesante/leggero.
Partiamo dal primo filone: e qui subito vi è da fare una distinzione tra lavoratore alle dipendenze di una cooperativa o di una società di altra forma giuridica.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, vi è un’ulteriore distinzione da fare, ossia quella tra dipendente della cooperativa e socio lavoratore della cooperativa.
Il primo è un dipendente come quello di una qualsiasi altra società, il secondo, con la sua qualità, ha diritti e doveri in ordine alle gestione dell’impresa, alla partecipazione all’elaborazione dei programmi e delle decisioni di sviluppo strategico, alla realizzazione dei processi produttivi, al contribuire alla formazione del capitale sociale, al partecipare al rischio di impresa e dunque ai risultati economici, positivi o negativi, dell’impresa, al mettere a disposizione le proprie capacità per il raggiungimento degli scopi produttivi dell’impresa, come stabilito dall’art. 2, l. 142/01.
L’art. 3, l. 142/01 ha introdotto un elemento di novità rispetto al passato in quanto le cooperative non sono più libere di stabilire il compenso da attribuire ai propri soci per l’attività lavorativa da espletare da parte dei medesimi, ma si dovranno attenere nella determinazione del trattamento spettante a quelli che sono i trattamenti economici minimi previsti per le mansioni analoghe dai vari contratti collettivi nazionali.
Grazie al disposto di questa norma, quanto meno dal punto di vista dei minimi retributivi, vi è stato un passo in avanti nella tutela del socio lavoratore e ore spiegherò perché.
Nel passato era invalso tra le cooperative l’utilizzo del contratto collettivo UNCI Confasl, tipico esempio di contratto pirata, a cui prima ho fatto riferimento, che prevede livelli salariali notevolmente inferiori rispetto a quello stipulato dai sindacati confederali, Legacoop e Confcooperative, con evidenti effetti di dumping contrattuale.
Ci si è quindi trovati nella coesistenza di due contrattazioni collettive, molto diverse nei contenuti retributivi per lo stesso settore, e la minore delle due si presentava più favorevole per il datore di lavoro.
Il legislatore per far fronte a questo smottamento ha provveduto con il d.l. 248/07 convertito in l. 31/08, il cui art. 7, comma 4 dispone: “… in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’art. 3 co. 1, della l. 3.4.2001,n. 142 i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazione datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”.
Tale norma è stata dichiarata costituzionalmente legittima, a seguito della questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Lucca che aveva chiesto la pronuncia del Giudice delle leggi per verificare se esso non fosse in contrasto con l’art. 39 Costituzione che garantisce il principio di libertà sindacale.
La Corte Costituzionale come detto ha dichiarato la legittimità della norma con sentenza 51/15 nella quale si legge “che l’articolo in questione si propone di contrastare forme di competizione al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative”.
Per stabilire quali siano le organizzazioni più rappresentative il Ministero del lavoro ha individuato nella Lettera circolare 10310/12 legacoop, confcooperative e AGCI per parte datoriale e cgil, cisl uil per le organizzazioni dei lavoratori.
La conseguenza delle sentenze e della norma sopra indicate è che le cooperative sono libere di applicare i contratti collettivi delle associazioni a cui aderiscono, ma devono corrispondere ai propri soci la retribuzione indicata nei contratti siglati dai sindacati più rappresentativi.
Da quanto detto parrebbe quasi una situazione rosea ed invece non è così: primo perché il limite vale solo per l’aspetto retributivo e non quindi anche per tutti gli altri isututi previsti dal contratto che quindi potranno continuare ad essere peggiori rispetto a quelli previsti dai contratti che si prendono a riferimento per la retribuzione.
Secondo aspetto, perché la l. 142/01 si compone anche dell’art. 6, ossia una norma che potrebbe quasi azzerare i vantaggi anzidetti.
La l. 142/01 che era nata in una logica espansiva di contrasto al dumping contrattuale, è stata modificata, in direzione completamente contraria dalla l. 30/03.
Questa infatti, oltre a vari interventi sugli artt. 2 e 5, ha modificato il 2° comma dell’art. 6, che dispone circa il regolamento interno delle cooperative.
Mentre in passato tale norma vietava al regolamento di peggiorare i trattamenti retributivi e le condizioni di lavoro previsti dai contratti collettivi nazionali applicati nel settore, ora statuisce che il regolamento non può derogare in peggio al solo trattamento economico minimo eventualmente fissato dai medesimi contratti collettivi.
Siamo quindi in presenza di una norma che facoltizza l’ente che dà lavoro, tramite un suo atto unilaterale, a non applicare clausole contenute in un contratto collettivo stipulato dalle competenti organizzazioni rappresentative sia dei lavoratori, soci e no, sia delle imprese cooperativistiche.
Emergono quindi due dati:
- l’evidente differenziazione, sopra accennata, tra il trattamento dovuto al socio lavoratore e quello al lavoratore non socio, assunto dalla cooperativa ed adibito alle medesime mansioni;
- la norma permette alla parte datoriale di fissare un tetto all’intero trattamento spettante per contratto collettivo ai soci e quindi attribuisce al datore di lavoro il potere di sottrarsi unilateralmente a clausole collettive legittimamente stipulate dalle organizzazioni competenti.
Ancora l’art. 6 attribuisce all’assemblea dei soci la possibilità di deliberare un piano di crisi aziendale e di determinarne le possibili conseguenze. Così dispone: 1. Entro il 31 dicembre 2003 (9), le cooperative di cui all’articolo 1 definiscono un regolamento, approvato dall’assemblea, sulla tipologia dei rapporti che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori. Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni dall’approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio. Il regolamento deve contenere in ogni caso (10):
a) il richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato;
b) le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci, in relazione all’organizzazione aziendale della cooperativa e ai profili professionali dei soci stessi, anche nei casi di tipologie diverse da quella del lavoro subordinato;
c) il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato;
d) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare, all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresì previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b), dell’articolo 3; il divieto, per l’intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili;
e) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare, nell’àmbito del piano di crisi aziendale di cui alla lettera d), forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie;
f) al fine di promuovere nuova imprenditorialità, nelle cooperative di nuova costituzione, la facoltà per l’assemblea della cooperativa di deliberare un piano d’avviamento alle condizioni e secondo le modalità stabilite in accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Mentre nel caso dell’art. 6, comma 1, lett. d) il socio lavoratore affronta una vera e propria perdita retributiva per tutto il perdurare della crisi, che è espressamente limitata nel quantum ad una riduzione “dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lett b) dell’art. 3, l’apporto anche economico di cui alla successiva lett e) può incidere anche sui trattamenti retributivi minimi così come previsto dall’art. 6, comma 2.
Il piano di crisi è uno strumento puramente endosocietario, che riguarda solo i soci lavoratori, e qui ecco un’altra differenze rispetto a coloro che sono solo dipendenti della cooperativa che va ad aggiungersi a quelle sopra indicate; esso, inoltre, in teoria dovrebbe essere legittimamente utilizzato solo a fronte di un’oggettiva, transitoria e riconoscibile situazione di crisi, alla quale non si può porre rimedio in alcun altro modo.
Dal momento che le predette misure sono particolarmente onerose è importante che i soci lavoratori siano informati in ordine alla oggettiva necessità e che condividano il progetto di risanamento.
Come è intuibile questo è quello che dovrebbe essere, ma che in realtà non è e qui ritorno a quanto detto all’inizio del mio interevento circa l’utilizzo fraudolento di misure lecite per scaricare i costi sui lavoratori.
L’utilizzo è fraudolento in quanto si danno piani di crisi che non danno conto delle effettività della crisi, non ne spiegano gli elementi, non ne indicano l’inizio, non ne indicano la prevedibile durata, non indicano il nesso di causa intercorrente tra la stessa e le misure adottate.
Altrettanto intuibile è come assuma rilievo la composizione della forza lavoro: la maggior parte sono lavoratori stranieri che in svariati casi hanno notevoli difficoltà di comprensione della lingua con la conseguenza che non hanno gli strumenti per ben comprendere cosa gli viene prospettato, ma soprattutto sono portati ad accettare e firmare qualsiasi piano di crisi pur di mantenere l’occupazione dal momento che lo spauracchio è evidentemente la chiusura della cooperativa, che spesso avviene in ogni caso, dopo però aver spremuto la forza lavoro. Come noto la perdita del lavoro che per ogni lavoratore è un dramma lo è ancor più per un lavoratore che, considerato il disposto della legge Bossi Fini, necessita del lavoro per il mantenimento del permesso di soggiorno.
Tutto ciò, per altro, a fronte di rapporti sociali fittizi, ossia di soci che lo sono solo formalmente, ma non contribuiscono in alcun modo a quanto previsto dal sopra menzionato art. 2.
Per quanto riguarda il lavoratore non socio, per certi versi la situazione forse è anche peggiore, in quanto come noto il datore di lavoro può applicare il contratto collettivo che ritiene o non applicarne alcuno, l’unico limite è solo il rispetto dell’art. 36 Cost. circa la retribuzione dignitosa (anche in questo caso si usa il riferimento con i minimi stabiliti dai c.c.n.l. regolanti il settore di riferimento).
Problema: cosa accade in questo caso? Il Giudice investito del Giudizio in ipotesi di non applicazione di alcun contratto, a fronte di più c.c.n.l. tutti applicabili in quanto facenti riferimento al settore e leciti, sarà portato ad applicare quello con i minimi tabellari inferiori se non sono scandalosi, dal momento che altrimenti, se applicasse quelli con minimi tabellari superiori, implicitamente parrebbe quasi dire che quelli con minimi inferiori sono incostituzionali, e ciò comporterebbe non poche difficoltà.
Altro problema che si sta ponendo ultimamente sempre allo scopo di abbattere il costo del lavoro è dato dal fatto che anche grosse cooperative stanno attuando o minacciando di attuare il passaggio dal c.c.n.l. Autotrasporti Merci e Logistica, c.d. contratto faro del settore, al c.c.n.l. Multiservizi, che, nonostante si applichi in ambito più che altro di pulizie, non si può dire che formalmente non riguardi anche l’ambito della logistica dal momento che prevede la figura del facchino.
I minimi tabellari di tali contratti sono differenti dal momento che il multi servizi prevede importi di più o meno 300 euro inferiori rispetto all’altro contratto.
Quanto detto mette in evidenza due questioni:
1) un problema su cui la Cgil sta iniziando a interrogarsi, come emerge dai vari convegni sul tema, ossia il fatto che diverse federazioni della confederazione sottoscrivano contratti così diversi tra loro.
2) ed in questo discorso si inserisce anche quanto prima detto a proposito dell’art. 3, l. 142/01, è la non ancora risolta questione dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi con conseguenti fenomeni di dumping contrattuale.
Si fa quindi sempre più urgente una legge sulla rappresentanza con criteri ben definiti per misurare la rappresentatività non solo delle organizzazioni dei lavoratori, ma anche delle associazioni datoriali.
Considerato il tema un cenno merita senz’altro il nuovo c.c.n.l. Autotrasporti Merci e Logistica sottoscritto il 03.12.2017 ed approvato nel gennaio 2018 con l’88% dei consensi tra i lavoratori della logistica, dell’autotrasporto, dei corrieri e delle spedizioni.
Non è questa la sede per un’analisi esaustiva del contratto, pertanto mi limito a porre l’attenzione su due soli elementi, che rappresentano luci e ombre del risultato raggiunto.
Buona è l’introduzione all’art. 42 della clausola sociale in ipotesi di cambio appalto con la previsione quindi del mantenimento, per i lavoratori occupati da almeno 6 mesi, dell’occupazione e delle condizioni contrattuali, tra cui anche l’applicazione della l. 92/12 per gli assunti prima del 07.03.2015.
Negativo invece quanto previsto in tema di contrasto all’assenteismo agli artt. 63 e 77.
In tali norme si legge che il fenomeno dell’assenteismo ha gravi ricadute oltre che sull’organizzazione del lavoro, anche e soprattutto sulla competitività, sulla produttività e sull’efficienza aziendale; per tali ragioni deve essere contrastato con misure, per così dire, di dissuasione dall’assenza per malattia.
Tali misure incidono sugli accordi di forfetizzazione per il personale viaggiante e sulla carenza della malattia per gli eventi morbosi che si presentano dopo un giorno non lavorativo.
Parrebbe quindi a prima vista che venga punita solamente l’assenza finalizzata a prolungare un periodo non lavorato; così non è dal momento che sono espressamente fatti salvi gli accordi sottoscritti a livello territoriale e/o aziendale fra le parti stipulanti il c.c.n.l., che ben possono derogare in peius quanto previsto dal c.c.n.l.
Gli accordi aziendali, sottoscritti evidentemente dal datore di lavoro e dalla OO.SS., non hanno tardato ad arrivare, in realtà già c’erano in quanto tale previsione era contenuta anche nella precedente versione del c.c.n.l., e sono di contenuto assolutamente peggiorativo per i lavoratori.
Solo per fare un esempio in un’azienda di Padova è applicato un contratto aziendale che prevede una decurtazione della carenza di malattia sin dal terzo evento a prescindere dal giorno di inizio dello stesso, con decurtazioni via via più importanti sino al mancato riconoscimento a partire dal 5° evento.
Tale previsione contrattuale pone in evidenza come l’attenzione sia tutta incentrata sulla competitività e sulla produttività aziendale senza chiedersi il perché il settore sia interessato da un tasso di assenteismo così elevato.
La risposta è subito data: carichi di lavoro massacranti in punto di chili di merce da movimentare al minuto, strumenti di lavoro inadeguati, spesso infatti i muletti, i trans pallet, i carrelli elevatori non sono adeguati alla movimentazione da eseguire, imposizione di procedure scorrette per accelerare i ritmi di lavoro.
L’effetto di queste condizioni di lavoro è che nel 2015 sono state denunciate all’incirca 2.800 malattie, e quasi 600 di queste sono state riconosciute di eziologia professionale.
A fronte di una situazione come quella appena descritta aziende e OO.SS. firmano accordi aziendali puntivi per coloro che si assentano per malattia.
Questa deprecabile prassi è ulteriormente aggravata dal fatto che tali accordi non sono efficaci nei confronti di tutti i lavoratori, in quanto non sono opponibili a coloro che sono iscritti ad alcun sindacato o ad un sindacato non firmatario, ossia sono opponibili solo a coloro che sono iscritti al sindacato firmatario, come stabilito dalla Corte di Cassazione da ultimo con sentenza n. 27115/17.
Ciò significa che i lavoratori iscritti a un sindacato non firmatario, potranno, e già è stato fatto anche avanti il Tribunale di Padova, impugnare il contratto aziendale e chiedere una pronuncia del giudice in punto di non opponibilità dello stesso nei loro confronti con la conseguenza che in caso di malattia essi, a differenza dei colleghi iscritti al sindacato firmatario, si vedranno riconosciuta l’intera carenza di malattia.
Da quanto detto sembra quindi, per così dire, pagare la scelta di non iscriversi affatto al sindacato o di non iscriversi ad un sindacato confederale posto che questi sono i firmatari.
Questione anche questa che di certo merita una riflessione.
Da ultimo occorre porre l’attenzione sul secondo filone in cui si articola il settore della logistica, ossia quello del trasporto su gomma.
In tale settore che occupa milioni di lavoratori in tutta Europa la concorrenza è sempre più accentuata ed è determinata, come intuibile, dagli autotrasportatori alle dipendenze di società con sede nei paesi dell’Europa dell’est.
Analizzare compiutamente il tema significherebbe addentrarci in una disamina della somministrazione transazionale, imprese che inviano in missione i loro dipendenti in un paese dell’unione, del trasporto di cabotaggio (prestazione di servizi di trasporto per conto terzi effettuata all’interno di uno stato membro, ossia con carico e scarico svolto nel medesimo stato, da un’impresa non stabilita in tale stato), delle letter box company, ossia società di comodo create solamente allo scopo di assumere lavoratori e distaccarli in altri paesi, società che quindi non svolgono un distacco autentico, ma richiederebbe troppo tempo.
Un dato però è da evidenziare, e dà il senso della pressione esercitata dai paesi dell’Europa dell’est per continuare a mantenere altissima la loro capacità concorrenziale, ossia che le modifiche apportate il 29 maggio alla direttiva sui distacchi 96/71/CE dal Parlamento europeo non riguardano l’autotrasporto internazionale di merci.
In estrema sintesi tale direttiva, nella sua versione novellata, prevede:
- dal primo giorno di distacco i lavoratori distaccati beneficiano della medesima retribuzione dei lavoratori locali dello stato membro ospitante;
- dopo 12 mesi, protraibili sino a 18, il lavoratore distaccato sarà soggetto quasi completamente al diritto del lavoro del paese ospitante;
- applicazione del c.c.n.l. del paese ospitante al lavoratore distaccato;
Come detto queste modifiche non valgono nel settore in commento in quanto c’è pressione da parte dei paesi dell’Europa dell’est affinché vi sia la possibilità di derogare all’applicazione della stessa per periodi molto lunghi anche di 7/10 giorni così da mantenere per i lavoratori le condizioni di lavoro del paese di origine con conseguente possibilità di dumping sociale.